Il terzo Yama è Asteya, che si traduce in genere con “non rubare”, concetto a cui direi tutti siamo abbastanza familiari.
Per dirne uno, è anche uno dei 10 comandamenti nella fede cristiana, e il furto è considerato un crimine in tutte le società.
Negli Yoga Sutra si distinguono tre diverse forme del rubare: il furto di beni materiali, il plagio (utilizzo improprio o senza permesso delle conoscenze di altri), il furto mentale (leggere senza permesso diari altrui, ascoltare conversazioni non destinate alle nostre orecchie…).
A leggere così, sembra abbastanza facile applicare Asteya, o almeno rendersi conto se non lo stiamo facendo. In fondo siamo cresciuti sentendoci dire che sono cose che non si fanno. Ci sono però, forse, casi in cui è più difficile distinguere.
Prendiamo in considerazione le idee, ad esempio. Ora che i social occupano praticamente ogni spazio nelle nostre vite, è facile vedere le stesse cose riproposte da persone diverse. Molto spesso prendiamo ispirazione da altri, ma fino a che punto è ispirazione, e quando diventa furto di idee?
A mio modesto parere, basterebbe la trasparenza. Dichiarare che si sta prendendo ispirazione da qualcun altro, o che addirittura lo si sta imitando per imparare. In questo modo non sto dichiarando che quella è una mia idea originale, ma sto comunque facendo quello che volevo, con onestà.
Certo, siamo esposti così tanto a stimoli diversi, vediamo costantemente immagini, sentiamo musiche e melodie, tutto il giorno tutti i giorni. Capita che io veda o ascolti qualcosa di sfuggita, la dimentichi (o creda di dimenticarla) e che poi mi ritorni alla mente giorni, settimane o mesi dopo, e che io creda che sia una creazione originale della mia mente. Posso quindi portare alla luce quell’idea dichiarandola come mia? O sarebbe rubare anche quello, anche se non so proprio di farlo? (Lascio a te la risposta, ma ti dico brevemente la mia: credo che questo sia un problema diffuso, e lo sarà sempre di più. Se c’è buona fede, e disponibilità di ascolto nel caso qualcuno venga a dimostrarci che quell’idea non era originale, allora credo che si possa fare.)
Volendo potremmo anche parlare del tempo. Chi più chi meno, capita a tutti di far “perdere tempo” a qualcuno, che sia per un ritardo a un appuntamento, o perché ci mettiamo più tempo del necessario per fare qualcosa. Ma poi, il tempo, è davvero “mio”? Cosa è effettivamente davvero “mio”, e può quindi essermi rubato?
Qui entra in gioco un’altra definizione di Asteya – più che non rubare, non desiderare di possedere. Che si allaccia al quinto Yama, Aparigraha, la non possessività (spesso tradotto come non attaccamento). E quindi direi che ne riparleremo quando arriveremo all’ultimo degli Yamas, perché sul non attaccamento c’è parecchio da dire.