Fermarsi non è un reato

Viviamo ormai in una società in cui fermarsi e non fare nulla sembra essere un reato capitale.

Il raro tempo libero che abbiamo, ci sentiamo obbligatә a impiegarlo in maniera produttiva, lavorando a un progetto, imparando qualcosa, creando qualcosa. Ci sono app che rendono una competizione anche leggere, e capita di cascarci, e trovarsi a sentirsi in obbligo di fare qualcosa che un tempo avremmo fatto per puro piacere. Con il risultato che non ne traiamo più piacere.

Non credo sia la prima volta che dico che sono stanca dei social, perché credo che buona parte di questo sentire nasca da lì. Ci sentiamo in dovere di essere sempre online, presenti, di mostrare quello che facciamo. E diciamolo, stare sul divano, con un pigiama vecchio e logoro addosso, a bere tè da una tazza scheggiata e leggendo un libro non è molto instagrammabile. E quindi se lo facciamo dobbiamo avere l’outfit giusto, la location perfetta, la tazza simpatica o a tema.

E anche se come me ti dici “e sticazzi” e non lo fai, c’è una vocina in fondo che ci dice che potremmo fare di meglio.

Oddio, so che non è così per tuttә, e per fortuna. 

E non voglio neanche demonizzare troppo i social perché in realtà è un discorso ampio, che include il mondo del lavoro, della scuola, tutta la società, è un modo di pensare che abbiamo semplicemente riportato anche online.

E sarà che da libera professionista che fa più o meno tre lavori diversi è difficile tracciare un confine, mentalmente ce l’ho ben chiaro ma poi nella vita svanisce troppo spesso, e quando mi impongo di riposarmi ho sempre il dubbio di farlo troppo, o di essere troppo indulgente con me stessa, perché in fondo ci sono persone che fanno molto di più e non si lamentano.

C’è una cosa che però forse tendiamo a dimenticarci, io per prima, e il mondo in cui viviamo non rende facile ricordarlo. Non siamo tutti uguali. Ognuno di noi ha i suoi tempi, i suoi modi di fare le cose, e non possiamo pretendere di riuscire a fare tutto quello che fa qualcun altro, se non è nelle nostre corde. Possiamo obbligarci a farlo e riuscirci anche per un periodo, ma alla fine il corpo, la mente, vengono a chiederci il conto.

Ho avuto l’influenza recentemente. Per la prima settimana, ho lavorato come se niente fosse (potrei giustificarmi dicendo che il grosso del lavoro non era rimandabile, ma non ho rimandato neanche quello che lo era). Il risultato? Alla fine mi sono dovuta fermare, e in quei due giorni passati a casa non avevo le forze di fare assolutamente nulla.

E me lo sono goduta quel nulla, anche perché nel vuoto io ci sguazzo, e ho realizzato che è esattamente quello di cui avrei bisogno in questo periodo in cui sto cercando di capire tante cose: un periodo in cui non ho niente da fare, in cui nessuno, io per prima, si aspetta qualcosa da me. Nessuna casa da pulire, niente internet che alimenta la FOMO (fear of missing out), se mai solo del tempo per godermi la JOMO (joy of missing out). Leggere se ne ho voglia, parlare se ne ho voglia, fissare il muro se ne ho voglia.

Quel vuoto che un tempo riuscivamo a creare almeno durante le vacanze, che siamo riusciti a rovinare con la smania di vedere il più possibile, postare la foto più bella, andare ad ogni costo in quel posto che va tanto al momento.

Io invece vorrei solo fare le cose che mi fanno stare bene in santa pace, parlarne o mostrarle solo perché ne ho voglia e non perché se sparisco dai social per un po’ poi vanifico tutto il lavoro fatto fino a quel momento.

Non è un argomento nuovo, non sono l’unica a parlarne, e ci sono persone che riescono a trovare il loro equilibrio. Io lo sto cercando, e spero di essere una di loro presto.

Photo by Joshua Hoehne on Unsplash

Aprire gli occhi

Da moltissimo tempo, sempre più persone parlano di quanto sia fuorviante l’immagine che dello yoga danno i social.

Sembra sempre più qualcosa per pochi, generalmente donne bianche, magre, iperflessibili, capaci di contorsioni da ginnasti.

Oltre a portare troppe persone a pensare di non essere adatte alla pratica, o a non sentirsi a proprio agio in una classe, queste immagini pongono l’accento solo sulla pratica fisica, e quando parlano di pratiche interiori, finiscono per farlo in maniera individualistica.

È giusto, giustissimo, mostrare come concentrarsi su sé stessi, come individuare le proprie paure e magari affrontarle, come osservare il proprio “spazio interno” al fine di conoscersi e rivoluzionarsi. È giusto insegnare la pazienza e la comprensione verso sé stessi.

Ma il problema, a mio parere, è che poi molti si fermano lì.

Io credo fermamente, invece, che tutto quello che facciamo e impariamo sul tappetino, mentre pratichiamo o mentre meditiamo, dovrebbe poi avere conseguenze anche fuori.

La pazienza e la comprensione, dovremmo poi praticarla anche verso l’altro.

Quel cambiamento, o quel desiderio di cambiamento, dovrebbe continuare anche fuori da noi stessi.

Imparare ad ascoltarsi è utile se poi impariamo ad ascoltare anche l’altro.

Imparare a non giudicarsi, nel corpo e nella mente, serve poi ad imparare a non dare giudizi affrettati anche fuori.

La pazienza che impariamo a mostrare verso noi stessi sul tappetino, è bene imparare a mostrarla anche verso gli altri.

Cerchiamo sempre di escludere il mondo esterno nella pratica, per concentrarci su di noi. Ma poi nel mondo noi ci viviamo, e non possiamo fregarcene. Non credo sia giusto dire che ciò che succede fuori non ci può toccare se noi siamo in pace con noi stessi. Perché le ingiustizie restano, e se lo yoga ci insegna che siamo UNO, allora quello che succede ad altri deve toccare anche me.

Non dobbiamo per forza iniziare una rivoluzione, combattere contro tutte le ingiustizie che ci sono, perché sono tante. Ma aprire gli occhi sì, possiamo farlo. Vedere quello che succede, e non solo quello che tocca noi in prima persona.

Aprire gli occhi, ecco. Quello che facciamo a fine pratica. Ma facciamolo davvero.

Foto: Letizia Menziani. Il tratto di costa su cui sorge il campo profughi palestinese di Nahr El-Bared (Nord del Libano)

Cercare bellezza

Jen Pastiloff ne ha fatto un hashtag. La chiama beauty hunting. Andare a caccia di bellezza, cercare la bellezza, ogni giorno e ovunque.

Che sembra facile ma in realtà è una cosa davvero difficile, in una società sempre di corsa. Non sto dicendo solo di fermarti e annusare i fiori, come diceva qualcuno, che magari a te i fiori non piacciono, o sei allergicə. O comunque la bellezza dei fiori magari sembra pure scontata. Ma trovarla, la bellezza, in una città grigia, in un ufficio caotico illuminato da luci artificiali o chissà dove, non è altrettanto facile. Eppure, forse, se alleniamo questa capacità, magari poi la vediamo. 

E il punto non è solo vederla, ma anche apprezzarla. Fermarsi anche solo un secondo per dire, anche solo a noi stessɜ “Hey guarda”.

Un po’ quella cosa dello stare nel qui ed ora, insomma. Trovare qualcosa che nel qui ed ora ci porti, prima di essere di nuovo trascinati nel prima, nel dopo, nell’altrove.

E forse può anche capitare di non riuscire a vederla, un giorno, un momento. Può essere. Ma provarci, almeno, ci avrà fatto stare nel momento. Anche solo per un attimo, forse, osservando il mondo intorno a noi e cercando qualcosa di apprezzabile, saremo fuggiti alla frenesia.

Mi sto rendendo conto, di nuovo, perché l’avevo già fatto ma me ne sono dimenticata, di quanto sia importante imparare a fermarsi, e farlo diventare un’abitudine. Sarà perché in queste settimane sono sempre, perennemente, di corsa; monto in sella e pedalo da un lavoro all’altro, con in testa to-do list infinite, che mi sembra quasi di pedalare tra una voce e l’altra, piuttosto che attraverso i parchi e le strade della mia città. E che succede quando mi lascio trascinare da questa frenesia? Quando non trovo il tempo per me, o per le persone a cui tengo? Divento nervosa, sempre più, e non riesco a godermi nemmeno i momenti di pausa.

Per questo ho deciso che questa pratica di ricerca della bellezza deve tornare a fare parte della mia vita. Osservare gli alberi, i prati, le persone, i cani, gli uccelli, gli insetti, tutto. E vedere quella cosa che mi fa rallentare, che mi fa dire “Hey, guarda!”. (Spoiler: il più delle volte sono gatti o cani, che ci posso fare…)

Ricercare bellezza non necessariamente per fotografarla, postarla, condividerla. Anche solo per ricordarci che non fa sempre tutto schifo. Che respiriamo, siamo vivi. E se proprio non trovi altro, già quel respiro che hai appena fatto, se ci pensi, è la cosa più bella e più importante del mondo.

Fotografo alberi

Non resisto alla tentazione di fotografare alberi. 

Mi sono chiesta perché, e l’unica cosa che mi è venuta in mente è:

“When you go out into the woods, and you look at trees, you see all these different trees. And some of them are bent, and some of them are straight, and some of them are evergreens, and some of them are whatever. And you look at the tree and you allow it. You see why it is the way it is. You sort of understand that it didn’t get enough light, and so it turned that way. And you don’t get all emotional about it. You just allow it. You appreciate the tree.

The minute you get near humans, you lose all that. And you are constantly saying ‘You are too this, or I’m too this.’ That judgment mind comes in. And so I practice turning people into trees. Which means appreciating them just the way they are.” Ram Dass

E in effetti li fotografo perché sono belli, tutti, in qualsiasi stagione. E forse piano piano sto davvero imparando a vedere le persone allo stesso modo, anche se non è sempre facile. 

Ho notato poi che in genere li fotografo dal basso verso l’alto, perché mi piace vedere il sole o le nuvole fare capolino tra i rami, e perché sembra che davvero possano arrivare al cielo, pur essendo ben radicati alla terra.

Ma forse alla fine la motivazione è ancora più semplice. Io gli alberi li fotografo sempre perché mi sanno di libertà.

Grigio

Dal 24 febbraio ho provato una miriade di sensazioni diverse.

All’inizio incredulità, senso di colpa, senso di impotenza. Ora prevalgono tristezza, rabbia, rassegnazione.

Tristezza per l’ennesima crisi umanitaria, per l’ennesimo popolo costretto a fuggire dalla guerra, e anche per il popolo che subisce le sanzioni per una guerra che non ha voluto, e gli arresti, se prova a dichiarare il suo dissenso.

Rabbia, tanta. Perché ci sono paesi, persone, che improvvisamente si dichiarano paladini dei rifugiati, ma che fino a ieri, e tuttora, i rifugiati li caccia con le armi perché hanno la pelle di un colore diverso, o credono in un Dio diverso dal loro.

Rabbia perché vediamo solo le guerre che vogliamo vedere.

Rabbia perché si poteva evitare tutto questo, si poteva prevedere e prevenire.

Rabbia, perché ovunque mi volti vedo gente schierata completamente da una parte o dall’altra, e pochi, pochissimi, che si rendono conto che in mezzo ci sono una miriade di diverse opzioni. Che essere contrari a qualcosa non significa necessariamente essere a favore del suo opposto. E quei pochi che, avendone l’autorità e soprattutto la conoscenza necessaria per parlarne, vengono zittiti e accusati di essere dalla parte sbagliata.

Non so quando ci hanno convinti che deve essere tutto bianco o nero. Che chi è contro al “cattivo” di turno, è per forza “buono”. Che tra il sì e il no non esistono più i se, i forse, gli oppure. Che non esiste più il grigio.

Ma purtroppo è una cosa che abbiamo interiorizzato. A un certo punto della nostra vita abbiamo imparato che non essere i migliori equivale a fallire. Che non fare tutto è praticamente fare nulla. Che possiamo essere tristi o felici e non esistono vie di mezzo.

E invece la vita sta proprio lì, nelle vie di mezzo. La vita è fatta di tante sfumature di grigio, che a volte tende al nero o al bianco, e in piccoli istanti magari diventa anche bianca o nera, ma non resta così per sempre.

E quindi arrivo alla rassegnazione. Perché se questa netta distinzione noi ce l’abbiamo così radicata dentro, non vediamo quanto è sbagliata quando viene portata nei discorsi di questi giorni. E quindi ci sembra di doverci schierare. Se siamo contro chi ha scatenato, in ultima istanza, con il primo attacco, questa ennesima guerra, allora dobbiamo per forza essere con chi la condanna, anche se questi sono coloro che avrebbero potuto evitarla.

C’è una cosa che faccio spesso fare ai miei allievi di yoga, ed è prendere le distanze da pensieri ed emozioni. Osservarli come fossero nuvole in cielo, o opere d’arte, facendo un passo indietro. Questo dovrebbe aiutarci a coglierne le sfumature, a non vederli come “positivi” o “negativi”, ma per quello che sono, e cogliere il bello che si nasconde nel brutto, e viceversa.

Ecco forse dovremmo farlo anche adesso. Un passo indietro mentre leggiamo o ascoltiamo notizie, dibattiti, approfondimenti. Cogliere le sfumature. Riscoprire il grigio, la via di mezzo, le varie opzioni.

N.B.: non sono entrata nel dettaglio volutamente. Non sono un’esperta di geopolitica né altro. Sono solo una persona che si pone tante domande e cerca di rispondersi come può.

Photo by Letizia Menziani

Lo yoga non basta (ma non significa che non faccia bene)

Anche se conosco tantissimi insegnanti che insistono sul fatto che lo yoga, di per sé, non è una disciplina completa, mi pare che il messaggio non arrivi a tutti abbastanza chiaramente.

Prima di proseguire, ti faccio una premessa, che è poi la mia risposta standard a chi mi chiede “ma va bene se faccio solo yoga? Basta?”

No, ma in realtà dipende. Dipende dal motivo per cui lo pratichi o vuoi praticarlo, dipende dai tuoi obiettivi (anche se non amo utilizzare questa parola in relazione alla pratica), dipende dal tuo stile di vita, dal tuo livello di energia, dalla tua voglia di muoverti.

Per anni lo yoga è stata la mia unica forma di movimento, e per anni è andato benissimo da solo. Perché? Perché era l’unica cosa che facevo volentieri. Se mi fossi sentita costretta a fare anche altre cose, molto probabilmente avrei trovato mille scuse per passare invece il mio tempo sul divano con un libro e un gatto.

Quindi, se l’unica cosa che ti attira è lo yoga, e l’alternativa sarebbe passare ulteriore tempo sedutə, allora vai, buttati, fallo.

A me poi lo yoga è anche servito a capire che era necessario fare altro. Anni di yoga con progressi lenti (che sì, ok, non sono lo scopo, ma insomma, sono sempre una spinta ad andare avanti), infortuni dovuti prevalentemente a muscoli poco allenati, mi hanno convinta. E ora, stento a crederci anche io, le due sedute di allenamento settimanali le faccio anche volentieri (con la playlist giusta)!

Ma veniamo a noi. Perché ti dico che lo yoga non basta? Che cosa manca?

Intanto, ritengo opportuno dividere il discorso tra i benefici fisici e quelli mentali, e le rispettive “carenze” della disciplina.

CORPO

Dal punto di vista fisico, lo yoga aiuta sicuramente a rendere il corpo più forte e più flessibile (a seconda dello stile o degli stili che si praticano, si potrebbe però tendere a lavorare più su un aspetto che sull’altro).

Ricordiamoci però, innanzitutto, che si pratica a corpo libero: non ci sono pesi, tradizionalmente. Per alcuni corpi basta il lavoro a corpo libero per rinforzarsi, ma altri hanno bisogno anche di lavoro di potenziamento, per far lavorare adeguatamente i muscoli e svilupparli.

Inoltre, e questa è la “pecca” che viene ripetuta più spesso, nello yoga manca un movimento fondamentale: il pull-up (trazioni). Molti insegnanti consigliano agli yogis di introdurre almeno questi esercizi nelle loro routine, per evitare eccessivi sbilanciamenti nella muscolatura delle spalle, e rinforzarle a dovere.

Ci sono insegnanti che, consci del fatto che tante persone non fanno altre attività, inseriscono nelle lezioni drills ed esercizi per compensare le mancanze delle classiche posizioni yoga. E ripeto, per tantissimi anni a me è bastato, e a molte persone potrebbe bastare quello per tutta la vita (soprattutto se l’alternativa è limitare il nostro movimento quotidiano ai 4 passi che ci separano dal parcheggio all’ufficio o a qualsiasi posto in cui dobbiamo andare).

Sorvolo su tutti gli “yoga per dimagrire”, “yoga per (inserire obiettivo a caso)” che si vedono spesso in giro: guardatevi da chi vi promette qualsiasi cosa.

Sappiamo bene che lo yoga non è solo una disciplina fisica, quindi passiamo al secondo punto.

MENTE

E per quanto riguarda la mente? Lo yoga viene pubblicizzato come rimedio contro lo stress, l’ansia, la paura, ormai quasi qualsiasi cosa.

Ma funziona davvero? Può funzionare, certo, al punto che molti psicologi e psicoterapeuti suggeriscono ai loro pazienti, o utilizzano durante le sedute, tecniche di respirazione o di meditazione.

Saper controllare il respiro, saper osservare la propria mente, ci aiuta sicuramente a gestire molte situazioni quotidiane. E a volte è tutto ciò di cui abbiamo bisogno.

Ma guardarsi dentro a volte fa emergere cose che non capiamo, che non ricordiamo. A volte le ansie e le paure ritornano triplicate. Semplicemente, a volte lo yoga non basta perché non possiamo fare tutto da soli, e in genere anche ə migliorə insegnanti di yoga non hanno le competenze e le capacità per accompagnarci in percorsi più difficili.

In questi casi, ci sono professionisti a cui rivolgersi, per affrontare meglio tutto ciò che lo yoga fa emergere. Continuando a praticarlo, ma facendoci accompagnare da altre persone lungo il percorso.

Soprattutto, guardandoci bene (e tenendoci alla larga) da tutti quei discorsi sul genere “positive vibes only”, “concentrati sul positivo e basta” ecc, che, a mio parere, sono soltanto modi per tenere la testa sotto la sabbia, e per far sentire inadeguato chi non ci riesce.

In conclusione, non credo che smetterò mai di consigliare di provare la pratica yoga a chiunque mostri un minimo interesse verso di essa. Non ho nulla da dire contro i tanti la cui unica attività fisica è la pratica (che non è solo una pratica fisica, lo sappiamo, ma è anche quello). Per alcuni, come è stato per me, le cose potrebbero cambiare, per altri no, e va bene così.

In fondo, non stiamo tutti cercando solo di stare bene?

Photo by JD Mason on Unsplash

L’importanza di fermarsi

Cosa mi ha insegnato lo Yin Yoga, e quanto facilmente lo dimentico

Ormai ho smesso di tenere il conto dei mesi di assenza da questo blog, ma spero davvero di poter tornare su questi schermi in pianta un po’ più stabile.

Il fatto è che, dopo il mese di pausa che mi sono presa ad agosto, tutto ha cominciato ad andare storto, o almeno così sembra a me (perché so benissimo che potrebbe andare peggio, ma il senso di sopraffazione si fa sentire).

Se alcune cose (come, purtroppo, i lutti) riesco ad accettarle come parte della vita, nonostante il dolore che provocano, e riesco a reagire in maniera consona, per altre ho avuto reazioni che pensavo non fossero più parte di me: rabbia, senso di smarrimento, ansia. Il bello (o brutto?) è che queste reazioni le ho avute prevalentemente su cose che magari non potevo prevedere (magari avercelo, quel superpotere), ma che potevo, in un modo o nell’altro, risolvere.

Ora che guardo ad alcune cose con un po’ di distacco, perché sto muovendo i primi passi per arrivare a una soluzione, mi rendo conto che era proprio quello che mi serviva: allontanarmi un attimo, fermarmi. Non erano situazioni di emergenza, potevo prendermi 5 minuti per elaborare la cosa, osservare magari la mia reazione immediata, capire se sarebbe stata utile o se non fosse meglio aspettare. Non l’ho fatto, e non so se è stata la stanchezza di un periodo di oltre due mesi in cui niente sembra andare nel verso giusto, o il fatto che ho perso un po’ di vista quei punti fermi che mi hanno aiutata negli ultimi anni. Forse entrambe le cose, dal momento che credo che la seconda sia diretta conseguenza della prima.

Ho capito che devo riprendere a meditare, nella forma che preferisco (il journaling) e anche con metodi più tradizionale. Devo ricominciare a lavorare sul respiro, e a praticare yin un po’ più spesso.

In fondo, accidenti, insegno Yin Yoga, e ripeto costantemente che uno dei principi da seguire è proprio lo stare fermi. E so bene che quello starsene fermi nella posizione e osservare cosa succede, è una cosa potente e utile non solo dal punto di vista fisico, ma anche, e forse soprattutto, mentale.

Ora è tutto nero su bianco, magari questo mi aiuterà a ricominciare davvero.

Yin Yoga è una pratica che pochi conoscono, che sulla carta sembra facile ma non lo è affatto, proprio perché, se ci impegniamo davvero a stare ed osservare, può portare disagio perché ci mette davanti a lati di noi stessi che non volevamo vedere. Le prime lezioni per me sono state difficili, ma andando avanti ho visto i benefici. Se ti va di provare, puoi contattarmi e unirti alle lezioni online.

C’è un altro luogo in cui dò spazio ai miei pensieri, e a cui puoi rispondere in privato direttamente a me, se hai voglia di condividere: la newsletter. Iscriviti se non l’ha già fatto, e ci sentiremo ogni due settimane, di venerdì.

Photo by Letizia Menziani

Aparigraha

Ed eccoci giunti al quinto Yama, l’ultimo: Aparigraha, in genere tradotto come “non possesso”.

In poche parole, si può dire che per raggiungere la vera conoscenza non dovremmo accumulare cose, ma possedere solo ciò che è necessario. Più cose possiedo, infatti, più la mia mente è distratta, debole, occupa spazio.

Certo, il confine tra necessario e superfluo è labile, dipende dalla società in cui viviamo, da come siamo cresciuti. Oggi, consideriamo internet una necessità, ad esempio, ma anche io, solo con i miei quasi 35 anni, ricordo quando era un lusso, una cosa che si concedeva chi poteva permetterselo (e aveva la pazienza di aspettare connessioni lentissime, che si bloccavano se suonava il telefono!).

Il minimalismo va molto ultimamente, e chi lo applica riesce ad avere uno stile di vita semplice ma non per questo privo di qualcosa: molti, ad esempio, hanno ripreso un’abitudine che un tempo era molto più comune – chiedere in prestito, o al più noleggiare. Ad esempio, ho un evento particolare per cui è richiesto un vestito che non possiedo, e che non userei mai più nella mia vita? Ho magari un’amica o qualcuno nella mia famiglia che può prestarmelo per l’occasione, o ho la possibilità di noleggiarlo e restituirlo quando avrò fatto?

A me quest’idea piace molto. Negli ultimi anni ho fatto molto spesso pulizia delle cose che possiedo (da quando mi sono trasferita in una casa molto piccola, e poi quando ho cominciato a condividerla con qualcuno che il minimalismo non sa proprio cosa sia). Tendo tantissimo al riuso, al riciclo, soprattutto dei capi d’abbigliamento. Per il resto ci sono poche cose che tendo ad accumulare. Per un periodo ammetto di aver accumulato fin troppi tappetini da yoga, ma a mia discolpa potrei dire che ci ho messo tanto a trovare quello più adatto a me. Qualcuno l’ho poi regalato, alcuni sono comodi da lasciare in palestra per quando insegno, così da non doverli portare sempre in giro, per gli altri (quelli più lisi e consumati, difficili da regalare) sto piano piano scoprendo il modo di riciclarli.

Un’altra cosa, però, sono i libri. Nonostante abbia da tempo scoperto la comodità degli ebook, soprattutto quando si viaggia, e nonostante detesti l’idea delle migliaia e migliaia di alberi tagliati per la carta…ammetto che il libro stampato ha tutt’altro sapore, odore… Come risolvo? Beh, il più lo leggo come ebook, ma quando un libro merita davvero lo compro anche in copia cartacea. Se è un libro che merita, però, è anche un libro che consiglierei, per cui almeno posso approfittarne per prestarlo.

Ok, meglio che mi fermi, se no comincio a parlare di tutt’altro! Ritorniamo al nostro Yama, e alla difficoltà di capire se una cosa è necessaria o se sono semplicemente attaccata ad essa. Potremmo effettivamente dire che tutto ciò che ci serve per sopravvivere è necessario, e al giorno d’oggi questo può in effetti includere anche internet, o uno smartphone, un computer. Di sicuro, il confine può variare da persona a persona, e forse l’unica cosa che possiamo fare è farci delle domande, fermarci a riflettere. Ad esempio, poniamo il caso che mi si rompa il telefono: mi dispero e corro per sostituirlo perché altrimenti non posso comunicare con mia madre, o perché non posso stare lontana dai social più di un’ora? Oppure, quel paio di jeans si strappa definitivamente, e magari mi arrabbio o ci resto male: è perché non ho altro da mettermi (e magari neanche i soldi per comprare qualcosa di qualità), o perché ero affezionata a quel paio e ai ricordi che conservava, ma ho l’armadio pieno di cose simili? E se è proprio quel paio di jeans che mi ricordava magari serate bellissime, è così sbagliato che mi ci fossi affezionata?

Soprattutto, questo significa che devo liberarmi di tutto subito? A questa domanda, personalmente risponderei di no. Quando individuo una cosa che mi sembra superflua, io aspetto sempre un po’. Osservo, vedo se la uso, anche solo ogni tanto, o se magari cerco scuse pur di usarla perché non voglio liberarmene. Se dopo un po’ di tempo vedo che in effetti è totalmente e inesorabilmente superflua, cerco di capire se posso riciclarla, regalarla, venderla.

Ricordiamo però una cosa: l’attaccarsi tanto a uno o più oggetti (senza motivo apparente), può nascondere una paura del cambiamento. E il percorso dello yoga è un percorso di cambiamento.

Vorrei concludere con una nota nostalgica. Da gattara quale sono, considero i gatti i migliori “maestri zen”. Da loro imparo ogni giorno a fermarmi, non fare nulla, godermi il momento. E in effetti, anche su quest’ultimo Yama potrebbero insegnarci molte cose. O forse no? Non che i gatti accumulino ossessivamente come facciamo noi, anche se ci provano a volte. La mia ad esempio, se potesse avere una casa piena di scatole di cartone di ogni dimensione sarebbe probabilmente contentissima. Ma non ne fa un dramma quando butto via l’ennesima scatola che ha fatto a pezzi (che per lei ovviamente era la migliore del mondo…fino all’arrivo di una nuova). Ma mi è capitato di vedere un gatto ossessivamente attaccato a un oggetto. Il mio amatissimo Smog, morto poco più di due anni fa, aveva un pupazzo (una talpa che mi era stata regalata dai miei cugini data la mia estrema miopia, e che gli avevo dato quando era molto piccolo per insegnarli a mordere quella e non me) a cui era legatissimo. Se la portava in giro, me la portava quando voleva giocare o la metteva nella cesta in cui aveva intenzione di dormire. Era sua, così tanto che Arya (la gatta che tutt’ora vive con me) non ha mai osato giocarci.

Quella talpa ora ha un posto d’onore sul mobile in cui tengo la campana tibetana e gli incensi. È diventata qualcosa a cui sono estremamente legata io. Qualcosa sicuramente di superfluo, ma da cui non riesco a staccarmi. E in fondo mi dico, se il mio maestro zen per eccellenza le era così legato, è davvero così superflua?

Brahmacharya

Eccoci al quarto Yama, quello che negli anni mi ha fatto venire non pochi dubbi: Bramacharya: controllo o continenza sessuale, castità.

Si parla di Brahmacharya nel Sutra 38 del Sadhana pada (la seconda sezone degli Yoga Sutra), che viene tradotto e interpretato in molti modi. Qualcuno parla proprio di assoluta castità, altri di controllo, altri ancora non parlano della sessualità ma di una continenza generica. Se pensiamo al concetto di castità che conosciamo (praticato in genere da religiosi), il dubbio nasce subito: molti, o quasi tutti, i più famosi guru avevano famiglie a volte anche molto numerose. Personalmente, ho trovato un po’ di “pace” durante una lezione di filosofia con un insegnante di Rishikesh, che diceva (riporto a memoria):

“Non dobbiamo essere monaci. La sessualità è un dono divino, come può essere cattivo/sbagliato? Nella vita di tutti c’è spazio per il piacere, ma entro certi limiti. La maggior parte dei grandi yogis avevano famiglia. La questione è avere controllo sui desideri e gli impulsi sessuali – dovrebbero nascere quando vuoi tu, non all’improvviso.”

Ho ritrovato poi un’interpretazione simile, se non uguale, in B.K.S. Iyengar e nel suo commento agli Yoga Sutra:

“Brahmacharya, nel senso del controllo sessuale o castità, è spesso male interpretato. L’energia sessuale è l’espressione fondamentale della forza vitale. E’ immensamente potente, ed è essenziale controllarla e canalizzarla. In nessun modo dovrebbe essere disprezzata. Al contrario, va rispettata e stimata. Colui che cercasse semplicemente di sopprimere o reprimere la sua energia sessuale, non farebbe altro che denigrare la propria natura. […]” *

E ancora:

“La rinuncia è un processo positivo di disimpegno, non un rifiuto sterile.” *

(Qui, volendo, potrebbe starci bene una digressione sulle violenze sessuali perpetrate per anni da alcuni “guru”, che chiaramente hanno così violato più o meno tutti gli Yama che insegnavano, non solo Brahmacharya. Non lo faccio non solo perché mi dilungherei troppo, ma perché non ne ho le competenze. E’ un argomento su cui mi tengo informata, però, e sarò felice di fornire risorse a chiunque le chiederà).

Che dire. Per anni ho pensato che fosse la mia mentalità occidentale (e diciamolo, anche tendenzialmente atea e poco spirituale), a farmi dubitare di certe traduzioni o interpretazioni. E forse è quella mentalità che mi fa prendere per più plausibili quelle scritte più sopra.

Forse, in effetti, per analizzare davvero gli Yoga Sutra occorrerebbe un sanscritista.

“Commento agli Yoga Sutra di Patanjali” B.K.S. Iyengar – Edizioni Mediterranee

Asteya

Il terzo Yama è Asteya, che si traduce in genere con “non rubare”, concetto a cui direi tutti siamo abbastanza familiari.

Per dirne uno, è anche uno dei 10 comandamenti nella fede cristiana, e il furto è considerato un crimine in tutte le società.

Negli Yoga Sutra si distinguono tre diverse forme del rubare: il furto di beni materiali, il plagio (utilizzo improprio o senza permesso delle conoscenze di altri), il furto mentale (leggere senza permesso diari altrui, ascoltare conversazioni non destinate alle nostre orecchie…).

A leggere così, sembra abbastanza facile applicare Asteya, o almeno rendersi conto se non lo stiamo facendo. In fondo siamo cresciuti sentendoci dire che sono cose che non si fanno. Ci sono però, forse, casi in cui è più difficile distinguere.

Prendiamo in considerazione le idee, ad esempio. Ora che i social occupano praticamente ogni spazio nelle nostre vite, è facile vedere le stesse cose riproposte da persone diverse. Molto spesso prendiamo ispirazione da altri, ma fino a che punto è ispirazione, e quando diventa furto di idee?

A mio modesto parere, basterebbe la trasparenza. Dichiarare che si sta prendendo ispirazione da qualcun altro, o che addirittura lo si sta imitando per imparare. In questo modo non sto dichiarando che quella è una mia idea originale, ma sto comunque facendo quello che volevo, con onestà.

Certo, siamo esposti così tanto a stimoli diversi, vediamo costantemente immagini, sentiamo musiche e melodie, tutto il giorno tutti i giorni. Capita che io veda o ascolti qualcosa di sfuggita, la dimentichi (o creda di dimenticarla) e che poi mi ritorni alla mente giorni, settimane o mesi dopo, e che io creda che sia una creazione originale della mia mente. Posso quindi portare alla luce quell’idea dichiarandola come mia? O sarebbe rubare anche quello, anche se non so proprio di farlo? (Lascio a te la risposta, ma ti dico brevemente la mia: credo che questo sia un problema diffuso, e lo sarà sempre di più. Se c’è buona fede, e disponibilità di ascolto nel caso qualcuno venga a dimostrarci che quell’idea non era originale, allora credo che si possa fare.)

Volendo potremmo anche parlare del tempo. Chi più chi meno, capita a tutti di far “perdere tempo” a qualcuno, che sia per un ritardo a un appuntamento, o perché ci mettiamo più tempo del necessario per fare qualcosa. Ma poi, il tempo, è davvero “mio”? Cosa è effettivamente davvero “mio”, e può quindi essermi rubato?

Qui entra in gioco un’altra definizione di Asteya – più che non rubare, non desiderare di possedere. Che si allaccia al quinto Yama, Aparigraha, la non possessività (spesso tradotto come non attaccamento). E quindi direi che ne riparleremo quando arriveremo all’ultimo degli Yamas, perché sul non attaccamento c’è parecchio da dire.