Connessi, sempre

Un tempo il telefono era solo dentro casa. Quando uscivi, nessuno poteva raggiungerti a meno che non sapesse dove trovarti. Se cercavi un amico e non lo trovavi in casa, aspettavi di essere richiamato. Se eri molto giovane, dicevi ai tuoi genitori dove eri diretto (che fosse poi la verità o meno) così non si preoccupavano, e a che ora saresti tornato (o in genere erano loro a dirti a che ora DOVEVI tornare).

Ora no. Il telefono ce l’abbiamo in tasca o nella borsa, possiamo ricevere chiamate, messaggi ed e-mail ovunque ci troviamo. Se viaggiamo fuori dall’Europa ci godiamo quei giorni o quelle settimane in cui finalmente possiamo essere “non raggiungibili”, non senza un po’ di ansia o di FOMO (fear of missing out, ndr), almeno all’inizio. E spesso cercando il WiFi con più urgenza dell’acqua (purtroppo ho visto scene simili…per poi scorrere il feed di Instagram).

Alcuni si ritagliano dei momenti del genere anche a casa: spengono il cellulare la sera o in altri momenti, magari hanno un numero di telefono fisso che conoscono in pochi, giusto così, per le emergenze.

In entrambi i casi, devi prima avvisare. Amici, parenti, clienti, colleghi, tutti. Devi annunciare che non sarai raggiungibile, fornire alternative o sperare che capiscano. In genere, si spera, non ci sono problemi: gli amici capiscono, i parenti anche, se siamo fortunati anche tutti gli altri. Chi non capisce la necessità di staccare (che sia per un viaggio, o per le ore serali e notturne) forse è meglio perderlo.

Ma il problema sta a monte, in noi. Che comunque abbiamo paura di perdere qualcosa, che sia un potenziale cliente, un’opportunità di lavoro, o qualcosa di non ben definito.

E che sentiamo allo stesso tempo la necessità di staccare e scappare da tutto questo, di crearci per un attimo l’illusione di una vita più tranquilla, meno frenetica, con la testa alta a guardare il cielo o ciò che ci sta intorno, e non abbassata su uno schermo a guardare o leggere la vita degli altri.

Mi è venuto in mente tutto questo perchè qualche giorno fa, a Rovigo, mi sono ritrovata senza internet. Il mio operatore telefonico aveva problemi con il 4g in zona (a dire la verità, mentre scrivo i problemi ci sono ancora), il contratto per il WiFi che il mio ragazzo aveva a casa è scaduto dopo circa 15 mesi di silenzio totale da parte sua (d’altra parte ormai qui non ci vive più). Devo dire che ero anche contenta di non POTER controllare i social ogni dieci secondi (si, purtroppo sono una di quelle persone che si deve imporre un limite, ma ci sto lavorando… e a quanto pare funziona), ma un po’ di ansia da perdita di clienti o lezioni annullate (dato che continuo a insegnare quasi esclusivamente online) ce l’avevo.

Una volta che abbiamo risolto almeno la questione WiFi in casa, così che io potessi lavorare, ho deciso di mantenere comunque il cellulare staccato dal WiFi e di usarlo il meno possibile, e per quanto lo permette una connessione lentissima. Ne ho approfittato, e ne approfitterò, soprattutto per staccarmi un po’ dai social, usarli in modo più intelligente, ponderato, utile.

Perché il mio rallentare per un po’ e concedermi del tempo significa soprattutto questo: godermi il momento presente, ed essere presente al 100% in quello che faccio. E se ho voglia di evadere un po’, molto meglio un bel libro.

Magari arriverà il giorno in cui non avrò più bisogno di prendermi una pausa da tutto, perché mi verrà naturale farlo in vari momenti della giornata.

Un po’ come quando ti diverti così tanto che ti dimentichi del cellulare e non pensi neanche a fare foto per ricordarti del momento (che diciamolo, lo facciamo più per pubblicarlo che per ricordarlo). Ecco magari un giorno riuscirò a percepire la mia vita in quel modo, e il tempo sui social e su internet servirà a lavorare e comunicare con persone lontane, non a riempire dei vuoti.

Perché anche il vuoto e la noia servono. Servono a far riposare il cervello, a fargli elaborare concetti e informazioni acquisite in precedenza. Ed è da lì, poi, che vengono le idee nuove.

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Predico bene, ma poi…

Lo dico sempre ad allievi, amici e parenti: “ascoltati, riposati se ne hai bisogno, segui quello di cui ha bisogno il tuo corpo”.

E io? Io faccio molta fatica a seguire questo consiglio. Neanche durante il lockdown mi sono fermata, anzi: ho lavorato anche più di prima.

Mi sono buttata in mille progetti nuovi senza pensarci troppo, presa da questa paura di rimanere indietro, di non lavorare… E ho spinto tantissimo anche nella mia pratica personale, perché se non pratico, cosa posso avere da insegnare?

Il ginocchio mi faceva male e io andavo avanti lo stesso, mi sono fatta trattare dall’osteopata e ho riposato un giorno, ma poi di nuovo via, sul tappetino, a fare yoga.

Solo che quello non era Yoga. Erano esercizi ispirati allo yoga, ma è evidente che mancava la parte di ascolto di sé su cui tanto insistiamo. C’era troppo attaccamento alla pratica fisica, troppo attaccamento alla forma, troppa paura di modificare per non farmi male di nuovo.

E poi, a un certo punto, l’ho capito. Lo scorso weekend, quando sono andata a Rovigo a casa del mio ragazzo per andare poi al mare. Ero stanca, tanto che facevo fatica a guidare, e dovevo restare concentrata al massimo perché la distrazione era dietro l’angolo. Tanto stanca che una giornata al mare mi ha distrutta al punto da buttarmi a letto senza fare nemmeno una doccia, e dormire più di dieci ore (cosa che a me non capita mai).

E così ho capito. Che è meglio andare un po’ più piano, piuttosto che correre e poi collassare quando il traguardo è ancora lontano.

Il giorno dopo, domenica, ho passato mezza giornata sul divano. Quando mi sono sdraiata con il libro in mano (ok, il tablet, dato che al momento leggo soprattutto su Kindle), mi sono chiesta da quanto tempo non lo facessi, e non riuscivo a darmi una risposta.

Una giornata intera di riposo e comunque la sera ero stanca, e di nuovo guidare era una fatica e ho rischiato di distrarmi più di una volta (ecco, qui sì che ci pensi bene, se ne vale la pena di stancarsi così tanto: quando ti rendi conto che una distrazione in autostrada, una domenica sera d’estate, non è esattamente il massimo della vita, anzi). Però la sera ho dormito. Il lunedì ero carica per la lezione del mattino, cosa che due giorni prima mi sembrava impossibile da affrontare (nonostante voglia un bene pazzesco alle mie allieve fisse). La differenza era che non avevo una to do list infinita da completare tra una lezione e l’altra. Certo, avevo delle cose da fare, ma ne ho eliminate parecchie, per concedermi del tempo per me e per le persone che amo.

Ho ripromesso a me stessa di ascoltarmi davvero, stavolta. Di non cercare di fare tutto e di più da sola, e subito, ma di darmi il tempo che serve, e di fare una cosa alla volta.

Un piede davanti all’altro, un respiro alla volta.

E non importa se altri fanno di più, se vanno avanti più in fretta, se lavorano di più e non si stancano. Questo è il mio passo, al momento, e va bene così.

Perché io amo quello che faccio, altrimenti non avrei scelto di farlo, ma non posso sacrificare tutto il resto per questo. Non posso rischiare di smettere di amarlo.

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Ad ognuno la sua

Trikonasana

Per ogni posizione di yoga, ci sono tantissime indicazioni o regole di allineamento per renderla “perfetta”: ogni posizione ha un suo scopo, fisico ed energetico, ed è importante farla bene per goderne di tutti i benefici.

Questo però non significa che devi seguire le indicazioni che senti come fossero rigide regole da seguire assolutamente; non a caso le ho chiamate indicazioni.

Ogni corpo è diverso, quindi ogni posizione potrà assumere una forma diversa a seconda di chi la pratica. Lo scopo, a mio parere, dovrebbe sempre essere quello di stare bene, nella posizione e quando se ne esce. Per questo è importante ascoltare l’insegnante ma anche il proprio corpo, e capire quando è il caso di modificare leggermente la posizione per renderla perfetta per noi.

In questa rubrica, prenderò in esame alcune posizioni per vedere come possiamo adattarle al nostro corpo – ma ricorda, la modifica perfetta per te potrebbe non essere tra quelle che elenco, non perché sia sbagliata, ma magari solo perché io non ci ho pensato. Non aver paura di sperimentare, cerca di capire lo scopo della posizione e poi trova il tuo modo per raggiungerlo.

Oggi parliamo di Trikonasana (posizione del triangolo), una asana che io inserisco nella maggior parte delle mie lezioni. Mi piace molto perché lavora su tutto il corpo ma è facilmente adattabile al livello di pratica, alle condizioni fisiche e anche al livello di energia che abbiamo quel giorno.

Prima di tutto, vediamo come entrarci: la maniera più classica è da Virabhadrasana 2 (Guerriero 2), perché la posizione dei piedi è la stessa. Abbiamo infatti le gambe divaricate, un piede rivolto verso il lato corto del tappetino e l’altro rivolto verso il lato lungo – il tallone del primo piede è in linea con l’arco plantare del secondo. Le gambe sono entrambe tese, ma consiglio di mantenere il ginocchio della gamba davanti leggermente piegato in modo da mantenere la gamba attiva, soprattutto per chi ha problemi alle ginocchia o tendenza all’iperestensione. Con le braccia aperte lungo la linea delle spalle, i palmi rivolti verso il basso, attiviamo l’addome e ci “sporgiamo” verso la gamba davanti, per poi far scendere il braccio verso la gamba, mentre l’altro sale automaticamente verso l’alto. La mano può appoggiarsi sulla gamba, oppure stare davanti alla gamba (in questo caso possiamo appoggiarla a un blocchetto).

Non importa se la mano resta molto in alto sulla gamba, resta dove senti qualcosa e non compromettere l’allineamento!
Se preferisci, puoi appoggiare la mano su un blocchetto posto di fianco al piede

L’idea è di allungare entrambi i fianchi, ed è importante ricordarselo: non devo per forza riuscire a prendere il piede, soprattutto se questo siginifica curvare la schiena. Molto meglio restare con la mano più in alto (come nella foto sopra) senza compromettere l’allungamento (e non rischiare di farsi male alla schiena!).

Cercare di raggiungere il piede compromettendo l’allineamento della colonna rende la posizione inutile, se non pericolosa! Il busto resta sempre sopra alla gamba allungata, non importa dove arriva la mano!

Immaginiamo di essere in posizione, con il piede destro rivolto verso il lato corto del tappetino. Entrambi i piedi premono a terra, e anche uno verso l’altro, così da attivare entrambe le gambe. L’addome è forte, il pube ruota leggermente verso lo sterno in modo da allungare la zona lombare, e la parte destra del torace ruota verso l’alto fino a far ruotare anche la testa. Il braccio destro è attivo, sia che la mano sia appoggiata sulla gamba, sia che sia davanti (mi raccomando, la mano si appoggia lievemente, non preme sulla gamba), e così anche il sinistro, che si estende verso l’alto come se con le dita volessi toccare il soffitto. Come vedi, è una posizione attiva!

E ora, vediamo le modifiche. In caso di problemi al ginocchio, come dicevo prima si può considerare di piegare leggermente anche entrambe le gambe; non troppo, quanto basta per evitare di bloccare l’articolazione. In caso di problemi al collo, possiamo evitare di guardare verso l’alto, e rivolgere lo sguardo davanti a noi oppure verso il basso. Se senti fastidio alla zona lombare anche ruotando il pube verso lo sterno, puoi provare a sporgerti leggermente in avanti (vedi foto sotto). In questo caso non avrai la classica linea dritta, ma può essere una buona soluzione in caso di iperlordosi, per dare un po’ di sollievo. L’importante è non ricorrere a questa soluzione solo per riuscire a far scendere la mano più in basso: ricordati, lo scopo non è quello di raggiungere il piede, ma di allungare entrambi i fianchi e la gamba.

Allineamento classico
Eventuale variante per chi ha tendenza all’iperlordosi. Il corpo resta attivo e la colonna allungata, ma sporgo il busto leggermente in avanti per dare sollievo alla zona lombare – NON per portare la mano più in basso!

Spero che questo articolo ti sia stato utile. Se hai domande, o necessità diverse da quelle elencate sopra, non esitare a contattarmi!

Pensavo fosse gratis

Ce lo siamo sentiti ripetere moltissime volte nell’ultimo periodo, noi insegnanti di yoga o istruttori di pilates o fitness in genere. E forse un po’ la colpa è anche nostra.

Già, perché subito, quando da un giorno all’altro ci siamo ritorvati con centri e palestre chiuse, siamo rimasti spaesati. Abbiamo provato ad aspettare per capire quando avremmo potuto ricominciare, ma presto è apparso chiaro che non sarebbe successo in fretta. Molti non erano attrezzati o preparati alle lezioni online, ma ci mancava fare il nostro lavoro, ci mancava vedervi o sapere che potevamo portare un po’ di leggerezza nelle vostre vite, soprattutto in un periodo difficile come questo.

Quindi abbiamo aperto canali YouTube o aumentato l’offerta su canali esistenti, abbiamo cominciato a fare dirette su Instagram e Facebook, per continuare a fornirvi quel servizio che negli anni avete dimostrato di apprezzare. Abbiamo raggiunto anche persone che non ci conoscevano, che vivono lontane, e subito era una cosa bellissima, lo è tuttora.

Ma a un certo punto, ci siamo resi conto che la cosa non era sostenibile. Saremo molto probabilmente tra le ultime attività a ripartire, e ancora non sappiamo quando. Nel frattempo, abbiamo delle spese. Molti di noi contano solo su questo lavoro, molti hanno centri e palestre per i quali devono continuare a pagare l’affitto. Molti centri hanno già chiuso, e non è da escludere che altri dovranno farlo.

E così, abbiamo attivato dei veri e propri corsi online. Zoom, Skype, Google Meet e altre piattaforme ci permettono di fare lezione alle persone vedendole, avendo la possibilità di correggere gli errori, dare alternative, proprio come facciamo di persona. Lo so, non è la stessa cosa. L’insegnante di yoga, ad esempio, non può aiutarti ad entrare nella posizione fisicamente, può solo guidarti con la voce. Ma è tutto quello che possiamo fare al momento. E sì, questi corsi hanno un costo. Più basso, in genere, rispetto a un corso dal vivo, ma devono averlo. Perché sappiamo bene che voi avete qualcosa in meno, ma noi stiamo lavorando anche di più. Lo facciamo per passione, perché ci mancate e ci manca il nostro lavoro; ma è, appunto, un lavoro.

Vi offriamo una prova gratis, se ci è possibile, ma non possiamo fare di più, anche solo per rispetto nei confronti di chi ha pagato il corso per intero, o sta utilizzando l’abbonamento acquistato prima della chiusura.

Ci rendiamo conto che il momento è difficile per molti, e posso dirvi che la maggior parte di noi, se non tutti, sarà ben disposta a venirvi incontro se avete perso il lavoro o non avete la possibilità di pagarci. Con uno sconto, o magari indirizzandovi verso le risorse gratuite più adatte a voi. Ma di più, purtroppo, non possiamo fare.

Le risorse gratuite continueranno ad esserci, faremo eventi speciali o caricheremo video nuovi su YouTube, e voi fate benissimo ad approfittarne. Abbiamo solo una richiesta: se trovate un insegnante che vi piace, o un centro della vostra città in cui vi piacerebbe andare, quando sarà possibile, valutate la possibilità di pagare le lezioni che offre a pagamento, se potete. O di farlo in futuro, quando potrete. Perché noi amiamo quello che facciamo, e non vediamo l’ora di potervi vedere dal vivo, di nuovo. Ma senza il vostro aiuto, non tutti potranno farlo.

Photo by Kari Shea on Unsplash

Yoga Nidra

Come vi avevo promesso la settimana scorsa, oggi parliamo di Yoga Nidra. Brevemente, perché per capire bene cos’è e come funziona, il mio consiglio è quello di provarlo.

Cos’è lo Yoga Nidra

Lo Yoga Nidra (“sonno yogico”) è una tecnica di origine tantrica, adattata ai giorni nostri da Swami Satyananda Saraswati, che notò che nello stato di semi-coscienza che precede il sonno la mente è più ricettiva.

Lo scopo dello Yoga Nidra è quindi quello di raggiungere quello stato di semi-coscienza per poter lavorare su vari aspetti della personalità e favorire alcuni aspetti cerebrali (creatività, capacità di problem solving, diminuzione dello stress…). Ha gli stessi benefici della meditazione, ma può essere praticato anche da chi non ha esperienza. Si pratica sdraiati, in Savasana, e non richiede quindi la capacità di mantenere una postura corretta in posizione seduta (cosa che risulta difficile a molti, soprattutto in Occidente). Richiede solo di restare fermi per tutto il tempo, e di cercare, per quanto possibile, di non addormentarsi. Ma non preoccuparti, capita a tutti di addormentarsi, soprattutto le prime volte!

Come funziona

La pratica di Yoga Nidra si basa su un schema preciso: preparazione, rilassamento, Sankalpa o risoluzione, rotazione di coscienza, consapevolezza del respiro, visualizzazione, Sankalpa, conclusione. Per questo va praticato con la guida di un insegnante, senza pensare alle varie fasi ma lasciandosi guidare dalla voce e seguendo le istruzioni.

PREPARAZIONE: Nel suo libro “Yoga Nidra”, Swami Satyananda Saraswati consiglia di fare alcuni movimenti prima di praticare Yoga Nidra – alcuni saluti al sole e alcune asana, in modo da preparare il corpo all’immobilità. Non tutti seguono queste indicazioni, e personalmente io l’ho sempre praticato da solo, oppure dopo una pratica di Yin Yoga (che, come puoi leggere qui, è una pratica statica). Anche quando lo guido, lo faccio in genere dopo una lezione di Yin.

RILASSAMENTO: In questa parte della pratica, all’inizio, si assume la posizione di Savasana e ci si ripromette di non muoversi. Consiglio di fare tutti i piccoli aggiustamenti necessari subito, e valutare se ci servirà un cuscino o una coperta, in modo da potersi godere appieno l’esperienza. Dopo aver trovato la posizione, in genere l’insegnante porterà i praticanti a concentrarsi sul respiro per qualche istante, in modo da rilassarsi completamente.

SANKALPA: A questo punto, è ora di pronunciare il proprio Sankalpa. Il Sankalpa è un proposito, o risoluzione, qualcosa che vogliamo realizzare nella nostra vita, ma che formuliamo con una frase breve e al tempo presente (come se fosse già reale), ripetuta mentalmente tre volte. È importante sceglierlo con cura, e non cambiarlo finché non sentiremo che è giunto il momento. Personalmente, io il Sankalpa non lo scelgo, ma resto in ascolto di ciò che arriva – non preoccuparti se le prime volte non sei sicuro/a o non arriva nulla, continua la tua pratica e presto saprai qual è il tuo.

ROTAZIONE DI COSCIENZA: In questa parte si viene invitati a portare l’attenzione a tutte le parti del corpo, che vengono nominate con un ordine e un ritmo ben precisi: non dobbiamo muoverle, o rilassarle, ma solo portare tutta la nostra attenzione nella parte del corpo nominata, per poi spostarla verso la successiva.

CONSAPEVOLEZZA DEL RESPIRO: Nelle pratiche più brevi questa parte viene spesso saltata. Quando è presente, si viene invitati a concentrarci sul respiro in modi diversi: a volte, contando i respiri a ritroso, altre volte concentrandoci sulla parte del corpo in cui lo sentiamo maggiormente (narici, labbro superiore, petto, pancia…).

VISUALIZZAZIONE: Ora si viene invitati a visualizzare ciò che l’insegnante nomina. In alcuni casi le visualizzazioni seguono un tema (ad esempio i Chakra), in altre sono immagini semplici, spesso naturali, comprensibili a tutti. L’insegnante in genere ripete le parole tre volte, in modo da dare il tempo alla mente di creare l’immagine corrispondente.

SANKALPA: Finita la visualizzazione, si viene invitati a ripetere nuovamente il Sankalpa per tre volte.

CONCLUSIONE: Ora l’insegnante ci guiderà lentamente fuori dal rilassamento, fino a portarci seduti in posizione comoda e a riaprire gli occhi.

Come ti dicevo all’inizio, lo schema preciso che si segue implica la necessità di avere un insegnante a guidarci, anche se Swami Satyananda Saraswati scrive che i praticanti più esperti potrebbero riuscire a praticarlo anche da soli.

Io la trovo una pratica utilissima per rilassarmi e per ritrovare la concentrazione, soprattutto in periodi stressanti. Se vuoi provarla, puoi trovare uno Yoga Nidra scaricabile nel mio pacchetto Yin Yoga qui, oppure puoi seguirmi sui social per sapere la data del prossimo evento (online) di Yin Yoga + Yoga Nidra.

Photo by Anton Shuvalov on Unsplash

Meditazione

Oggi vorrei parlare di meditazione. Premetto che non sono una gran meditatrice, cioè, dopo anni faccio tuttora molta fatica a sedermi e meditare per lunghi intervalli di tempo. Per questo motivo, mi sono chiesta per un po’ se fosse il caso di scrivere questo articolo. Mi sono decisa principalmente per un motivo: voglio esprimere il mio punto di vista e soprattutto far capire (anche solo a una persona) che non è una cosa da persone “elette” e soprattutto che non è un’attività noiosa. Vorrei che tutti ne vedessero i benefici, e forse in parte voglio rivederli anche io con occhi nuovi, dato che sto attraversando uno dei miei periodi in cui meditare sembra la cosa più faticosa del mondo, e sicuramente quella da mettere in fondo alla to-do list della giornata (e da ignorare poi, arrivata a sera… Lo so, molto poco yogico, ma noi yogi e yogini e insegnanti di yoga siamo, in fondo, persone normali proprio come te).

Approcci

Altra premessa, io mi sono avvicinata alla meditazione anni dopo il mio primo approccio alla pratica fisica dello Yoga (seguendo almeno in parte, senza saperlo, i gradini elencati da Patanjali). È stato in un momento un po’ stressante, in cui avevo bisogno di fermarmi, ma avevo anche bisogno di una scusa per farlo: non riuscivo a stare senza fare nulla, e meditare mi sembrava un’attività più produttiva. Ho cominciato come molti con pratiche guidate, su app o youtube, per poi, dopo molto tempo, fare anche il tentativo da sola. Tuttora ho alti e bassi nella mia pratica di meditazione, in alcuni periodi riesco a farlo tutti i giorni, in altri la mia meditazione si limita al rilassamento in Savasana a fine pratica, e magari qualche respiro prima di insegnare. Sono perfettamente in grado di guidare una meditazione ai miei allievi, in Savasana, ma spesso faccio fatica a restare ferma ad osservare la mia stessa mente. Ci provo lo stesso però, e accetto i momenti in cui non funziona. In fondo la meditazione è questo: stare lì ad osservarci, senza giudizio. Osservare i pensieri, la mente, o la nostra incapacità di farlo. Osservare tutte le volte in cui ci distraiamo, e provare a tornare a concentrarci. Alcuni giorni va benissimo e dieci o venti minuti volano via, altri giorni invece quegli stessi dieci minuti sembrano durare un’eternità. Non importa. L’importante è continuare a provare, e accettare qualsiasi cosa arrivi. Molto spesso, può arrivare tristezza, e allora magari versiamo qualche lacrima, o ci lasciamo andare a un pianto sconsolato; altre volte magari arriva felicità, euforia, e la meditazione è interrotta da una risata senza senso. Personalmente mi sono capitate entrambe le cose, e anche tantissime sfumature intermedie.

Quello che so per certo è che, nonostante io sia ancora una meditatrice molto goffa, da quando ho cominciato sono un po’ più calma: reagisco meno alle cose, anche se non sempre – sono umana e sì, a volte mi arrabbio e mi dispero, ma anche quando capita dura meno di un tempo. Ho un atteggiamento più positivo, non nel senso che non vedo le cose brutte o mi rifiuto di vederle, anzi. Le riconosco, e magari mi arrabbio o provo a cambiarle se posso. Ma ho la consapevolezza che è tutto passeggero, il bello e il brutto, la gioia e la tristezza, il piacere e il dolore… e che l’accezione positiva o negativa che diamo alle cose è spesso frutto della nostra mente; che a volte, dalle cose brutte nascono anche cose belle, o per meglio dire, alcune cose brutte hanno come effetto opposto la nascita di cose belle (ad esempio, la nascita di movimenti sociali o di volontariato in risposta a situazioni come guerra o ingiustizie sociali o calamità naturali).

Sapere che in fondo è tutto passeggero, rende un po’ più facile godersi a fondo i momenti e i sentimenti felici, ma senza attaccarsi troppo a quella sensazione, e anche vivere quelli tristi sapendo che sono destinati a finire, prima o poi.

La svolta

Cosa mi ha fatto innamorare della meditazione? Un tipo di meditazione, che si fa da sdraiati (tuttora la mia posizione preferita per meditare), e che può fare anche chi non ha mai meditato: lo Yoga Nidra. Parlerò di Yoga Nidra in modo più approfondito nel prossimo post, ma ti spiego brevemente di cosa si tratta: è una tecnica di origine tantrica, adattata ai giorni nostri da Swami Satyananda Saraswati, che notò che nella fase di semi-coscienza che precede il sonno la mente era molto ricettiva. Sviluppò quindi delle tecniche precise per giungere a quello stato, in modo da poter lavorare su alcuni aspetti della mente e della personalità.

Il primo Yoga Nidra l’ho praticato a un workshop con Patrick Beach, e ovviamente mi sono addormentata! Ma ne sono rimasta affascinata, e ho deciso di provarlo altre volte, e poi ancora, finché non ho cominciato a studiarlo un po’ meglio anche per essere in grado di guidarlo. La trovo una pratica davvero efficace sotto moltissimi punti di vista, e soprattutto, nei periodi in cui faccio fatica a meditare, è l’unica che riesco a fare.

(Se ti ho incuriosito, su youtube puoi trovare varie pratiche di Yoga Nidra, oppure puoi iscriverti al mio pacchetto Yin Yoga su Teachable in cui troverai uno Yoga Nidra scaricabile! Sul mio canale YouTube, invece, puoi trovare alcune brevi meditazioni per cominciare ad avvicinarti alla pratica.)

Photo by JD Mason on Unsplash

Ad ognuno la sua

Plank

Per ogni posizione di yoga, ci sono tantissime indicazioni o regole di allineamento per renderla “perfetta”: ogni posizione ha un suo scopo, fisico ed energetico, ed è importante farla bene per goderne di tutti i benefici.

Questo però non significa che devi seguire le indicazioni che senti come fossero rigide regole da seguire assolutamente; non a caso le ho chiamate indicazioni.

Ogni corpo è diverso, quindi ogni posizione potrà assumere una forma diversa a seconda di chi la pratica. Lo scopo, a mio parere, dovrebbe sempre essere quello di stare bene, nella posizione e quando se ne esce. Per questo è importante ascoltare l’insegnante ma anche il proprio corpo, e capire quando è il caso di modificare leggermente la posizione per renderla perfetta per noi.

In questa rubrica, prenderò in esame alcune posizioni per vedere come possiamo adattarle al nostro corpo – ma ricorda, la modifica perfetta per te potrebbe non essere tra quelle che elenco, non perché sia sbagliata, ma magari solo perché io non ci ho pensato. Non aver paura di sperimentare, cerca di capire lo scopo della posizione e poi trova il tuo modo per raggiungerlo.

Chi mi conosce sa quanto amo il plank e tutte le sue varianti, e chi pratica con me sa bene quanto amo inserirne tantissimi nei flow.

Al plank attribuisco molta della forza che ho guadagnato con lo yoga, perché se fatto bene fa lavorare praticamente tutti i muscoli del corpo. Se fatto bene: è infatti importante avere un corretto allineamento e davvero usare i muscoli per restare in posizione.

Plank tradizionale
Visto frontalmente

Cominciamo dalla posizione classica: le mani sono sotto alle spalle, le dita bene aperte e tutto il palmo e tutte le dita premono sul tappetino, come a volerlo spingere via. (ditaa ragno?) Le braccia sono quindi attive, così come le spalle. Il corpo forma una linea idealmente dritta dalla sommità del capo ai talloni – questo siginifica che il bacino non deve “collassare” verso terra, che l’addome deve essere davvero attivo, con l’ombelico che va verso la colonna, e così la schiena e le gambe. I talloni sono sopra le dita dei piedi – immagina di avere un muro dietro e di appoggiarci tutta la pianta del piede.

So bene che per alcune persone è difficile mantenere questa posizione, per cui andiamo a vedere alcune varianti per renderla più accessibile.

Innanzitutto, se il tuo “core” non è ancora abbastanza forte e il tuo bacino tende a cadere verso terra, allora consiglio di appoggiare le ginocchia a terra: in questo modo formerai una linea col corpo dalla sommità del capo al coccige (non fino ai talloni). Attivando volontariamente l’addome, riuscirai man mano a rinforzarti sempre di più, fino a non avere più bisogno di appoggiare le ginocchia.

Se hai difficoltà ad attivare l’addome, appoggia le ginocchia a terra e solleva i piedi

Se il tuo problema in plank sono invece i polsi, innanzitutto ricordati di scaldarli bene prima della pratica. Se ancora ti danno problemi, o sai già di avere problemi ai polsi e di non poterlci caricare il peso del corpo, hai due opzioni: la più comune, cioè fare plank sugli avambracci (che però per alcuni può essere anche più difficile di un normale plank), oppure stringere le mani a pugno e appoggiarti sulle nocche. Quest’ultima opzione non è accessibile a tutti, lo so, e bisogna fare attenzione se si decide di provarla, tenendo le mani attive per evitare di farsi male alle dita. L’ho inclusa perché mi fu suggerita tempo fa da un’amica che tendeva, a volte, ad avere problemi ai polsi, e che trovava il plank sugli avambracci troppo difficile (e non molto accessibile quando il plank veniva fatto come parte del vinyasa e del saluto al sole).

Plank sugli avambracci
Sui pugni
Sui pugni, visto frontalmente

Spero che queste indicazioni ti siano state utili, e che ti aiutino ad amare questa posizione quanto me.

(Come sempre, se hai domande o dubbi, sono a tua disposizione!).

Minimalismo

I miei (goffi) tentativi, e le opportunità della quarantena

Da qualche mese avevo deciso di voler avere un approccio più minimalista alla vita. Liberarmi di quello che non serve, comprare meno e solo il necessario, vivere con meno. Non è una cosa facile, nella nostra società, ma credo che questo periodo possa aiutarci moltissimo a liberarci del superfluo. Ora che non possiamo comprare oggetti non strettamente necessari, ora che persino Amazon ha deciso di dare la precedenza ai prodotti di prima necessità, possiamo finalmente fermarci a pensare “mi serve davvero?”.

È una cosa che alcune persone fanno da sempre, spesso per ragioni economiche. Ma molti no. C’è un prodotto in offerta, approfittiamone! Ho una serata particolare, devo comprare il vestito, e le scarpe! Non eravamo abituati a fermarci e pensare se fosse davvero necessario. Da troppe parti ci arrivava il messaggio che “più è meglio”, e noi lo abbiamo interiorizzato senza rendercene conto.

In situazioni normali, optare per un approccio minimalista richiede sforzo e forza di volontà. Devi guardare tutto quello che hai, e decidere se davvero ti serve (o servirà) o se è il caso di venderlo o regalarlo. Ogni volta che pensi di aver bisogno di qualcosa di nuovo, devi fermarti a pensare “ne ho davvero bisogno? Posseggo già un oggetto che può avere la stessa funzione? Posso farmelo prestare?”

È molto più facile aprire l’app di Amazon e richiedere la consegna in giornata, vero?

Personalmente, avere troppi oggetti intorno (a parte i libri) mi disturba. Creano disordine nell’ambiente e nella mia mente. Una stanza vuota, invece, mi da un senso di pace. Riesco a respirare, c’è più aria. Eppure, anche io tendevo a comprare cose che poi si rivelavano non così utili. O ad accumarle dopo che avevano svolto la loro funzione, perché “non si sa mai”. Credo sia proprio quel “non si sa mai” che mi portava ad accumulare più del necessario. “Quel vestito lo tengo, non si sa mai che mi serva per un’occasione particolare, e io sicuramente non voglio darlo via per poi doverne comprare un altro”, “ho troppi tappetini da yoga, ma li tengo perché potranno essere utili per quando (e se) avrò un posto mio in cui insegnare”. Non c’è niente di male in questo, a mio parere. Conservare un oggetto o due che potrebbero verosimilmente tornare utili in futuro, non è necessariamente sbagliato. Per quanto mi riguarda, ho deciso che se incontro qualcuno che ha davvero bisogno di quella cosa che io tengo da parte, allora posso anche dargliela, e pormi il problema in futuro, se si presenterà. In alternativa, conservarlo, in attesa che serva a me o a qualcun altro. Ma bada bene, parlo di uno o due oggetti. Un vestito che non uso quasi mai, ma che è abbastanza versatile da poter tornare utile. Un tappetino o due in più, rispetto a quelli che abitualmente uso, da prestare ad amici o ad allievi. Anche magari l’unico oggetto che ti ricorda quella persona o quell’animale che non c’è più. Non di più però. Non tutti i vestiti che hai accumulato e che non indossi mai. Non tutti i tappetini da yoga, distrutti o inutilizzabili. Non tutte le scarpe, che non userai mai magari perché ti fanno anche male ai piedi.

Certo, almeno per me, è un processo lungo. Prendiamo i vestiti ad esempio: non do via un maglione buono a metà estate, ma aspetto la fine dell’inverno successivo, e se non l’ho mai usato, allora quel maglione starà meglio nell’armadio di qualcun altro. Ma evito di comprarne uno nuovo, se ho quello da parte che potrei usare. E così per tutto.

Più facile a dirsi che a farsi, lo so, ma in questo periodo abbiamo l’opportunità di farlo con più facilità. Abbiamo più tempo per riflettere se quell’oggetto ci serve o ci rende felici. Non possiamo comprarne un altro simile, o magari possiamo, online, ma ci fermiamo a pensare un po’ di più se sia il caso di esporre un corriere a vari rischi solo per portarci quella cosa che magari non è necessaria; e se decidiamo che ci serve davvero, magari abbiamo il tempo di comprarlo da un piccolo negozio in difficoltà, e allora quell’oggetto assumerà ancora più valore.

Non sto dicendo che dovremmo tutti svuotare le nostre case senza pensarci due volte, proprio il contrario. Ora che in casa dobbiamo passarci molto tempo, guardiamoci intorno. Quello che c’è dentro, ci sta aiutando in qualche modo a superare questo momento di difficoltà? Quei soprammobili mi danno gioia, mi fanno sorridere quando li guardo, o è solo una cosa in più da spolverare di cui farei volentieri a meno? Mi piace avere la casa piena, o sento il bisogno di spazio e di aria? Quello spazio e quell’aria che in genere cercavamo fuori, ora che non possiamo uscire così spesso, proviamo a crearceli dentro. Dentro casa, dentro al luogo in cui viviamo, dentro noi stessi.

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Yin Yoga

Cos’è, e perché dovresti provarlo

Lo yin yoga è uno stile relativamente recente, anche se si ispira a pratiche antiche.

Nasce negli anni ’70 ad opera di Paulie Zink, campione di arti marziali e insegnante di Taoismo, che creò delle pratiche di Yin Yang Yoga che fondevano principi dell’hatha e del taoismo. Lo yin yoga che conosciamo oggi, però, fu sviluppato prima da un suo allievo, Paul Grilley, e successivamente da Sarah Powers.

Per comprendere appieno lo yin occorre prima almeno accennare ai concetti di Yin e Yang: due forze opposte e complementari, presenti in natura e in noi stessi. Yin è energia femminile, e rappresenta la passività e il freddo. Yang è invece energia maschile, attiva e calda. L’Hatha yoga tradizionalmente lavora su entrambe le energie, mentre lo yin si concentra su quella passiva.

Le posizioni di yin yoga sono prevalentemente svolte a terra, e mantenute per lungo tempo (da tre a cinque o più minuti). Grazie a questo, e poiché in genere è consigliato praticarlo a muscoli freddi, riesce a lavorare sui tessuti più profondi (tendini, fascia, legamenti e altri tessuti connettivi), aumentando quindi la flessibilità. Le posizioni sono simili a quelle dell’hatha yoga (d’altra parte è da lì che deriva), ma differiscono soprattutto nella modalità di entrata nella posizione, e nell’allineamento. Nello yin non usiamo i muscoli né per entrare nella posizione, né per restarci; possiamo curvare la schiena e lasciarci completamente andare alla forza di gravità, anzi, è proprio quello che nel tempo ci renderà più flessibili. Questo rende lo yin sicuramente meno “spettacolare” e bello da vedere, ma una cosa che ripeto sempre è che lo yoga deve essere bello da fare, non da vedere, e per lo yin questo vale forse ancora di più.

Come tutti gli stili di yoga, lo yin lavora anche sulla mente, e per certe persone è questa la parte più difficile: non richiedendo movimento, lo yin assomiglia moltissimo a una meditazione. Dopo qualche minuto in una posizione, la nostra mente comincia a vagare, oppure a voler uscire dalla posizione, ed è nostro compito capire per quale motivo lo sta facendo, e farla tornare al momento presente.

Lo yin si basa su tre principi, che è molto importante tenere sempre a mente quando lo si pratica:

. Trova il tuo limite: è importante non superare i limiti del nostro corpo, soprattutto quando dobbiamo restare in una posizione per lungo tempo. È sempre meglio entrare nella posizione con lentezza, e trovare il proprio limite con calma, piuttosto che andare al massimo subito, e rischiare di farsi male.

. Stai fermo: una volta trovato il tuo limite, muoviti il meno possibile. Resta in ascolto del corpo, e se senti sensazioni davvero spiacevoli (scosse elettriche, dolore, o una parte del corpo che si addormenta) allora prova a fare un passo indietro o a uscire dalla posizione; altrimenti, semplicemente:

. Resta nella posizione – e respira qui. Lasciati andare, concentrati sul respiro, e torna al respiro ogni volta che la tua mente vaga o cerca di dirti che non puoi restare nella posizione un secondo di più.

Ti confesso che io i primi tempi ero molto scettica: non sono mai stata brava a meditare e lo yin mi sembrava davvero troppo per me. È bastato poco però a farmi innamorare, e quando ho visto i benefici che il mio corpo e la mia pratica ne traevano, ho deciso di farlo diventare parte integrante della mia vita.

(Se ti ho incuriosito/a abbastanza da volerlo provare, sul mio canale YouTube ci sono alcune pratiche, sia brevi che lunghe, e continuerò ad aggiungerne altre nel tempo.)

Andrà tutto bene

Parliamo dell’elefante nella stanza.

Non di Covid-19, di quello meglio che ne parlino gli esperti.

Ma possiamo parlare dell’isolamento, del divieto di uscire di casa, delle valide motivazioni, e soprattutto, di come fare a resistere e a sopravvivere a tutto questo tempo con noi stessi.

Ognuno la vive in modo diverso, ognuno si trova in una situazione diversa. C’è chi continua ad andare a lavorare, per salvare vite, o per mantenere i servizi essenziali. A loro dico un enorme grazie. Sia se abbracciate ancora i vostri cari quando tornate a casa, o rimianiate isolati per proteggerli, o viviate soli e quindi rientrate in una casa vuota. Grazie, senza di voi saremmo persi.

C’è chi lavora da casa ed è stressato perché ha figli, mariti o mogli, compagni che minano la concentrazione. C’è chi lavora da casa e vive solo, e riesce a lavorare ma dopo non ha nessuno da abbracciare.

C’è chi non lavora dal 23 febbraio, o poco dopo, e tra questi moltissimi sono a casa senza paga, perché liberi professionisti. E quindi all’isolamento si aggiunge la paura, la preoccupazione del come fare a pagare tutto, adesso e dopo, quando sarà finita.

Per tutti c’è la domanda: quando sarà davvero finita? Perché forse è proprio questo che rende tutto pesante. Se sapessimo che in data X potremo tornare a vivere come prima, forse sarebbe più facile. E invece non possiamo saperlo. I numeri crescono, e noi continuiamo a guardarli.

Ci ritroviamo a passare un sacco di tempo con noi stessi, inevitabilmente. Non abbiamo più tutte le distrazioni di cui ci riempivamo la vita, e dobbiamo fare i conti col nostro io. E non è una cosa facile, anche perché è proprio in situazioni difficili che esce quell’io che noi così disperatamente cerchiamo di nascondere.

E così, ecco fioccare attività, alcune gratuite, altre magari solo scontate, da fare online, dal fitness alla cultura, perché questo tempo dovremo riempirlo in qualche modo.

Da un lato è molto bello, approfittiamone per imparare qualcosa, muoviamoci un po’. Ma cerchiamo di non riempirci le giornate fino all’ultimo secondo. Non era forse quello ciò di cui ci lamentavamo prima? Di non avere tempo di riposarci, o di leggere, o di fare qualcosa che ci piace?

Magari, prima di buttarti e iscriverti a mille corsi, fermati a pensare alla lista di cose che volevi fare “un giorno, quando avrò tempo” – e poi fai una di quelle cose. Una alla volta magari. Siamo abituati a vivere a cento all’ora e adesso abbiamo un’opportunità unica: rallentare. Goderci il tempo con i nostri cari, se vivono con noi. Chiamarli, se non possiamo vederli. E abbiamo l’opportunità di conoscere noi stessi davvero. Chi sono, senza la pressione sociale che mi spinge a voler essere altro? Chi sono, in un momento di difficoltà, quando perdo le speranze? Chi sono, quando non posso fare altro che essere?

Possiamo finalmente rispondere a queste domande, adesso, se vogliamo. E possiamo migliorarci, se quello che scopriamo non ci piace.

Approfittiamo di questo tempo per studiare, leggere, fare, ma approfittiamone anche per non fare. Per essere e basta.

Approfittiamo delle offerte, delle lezioni gratis, ma scegliamo bene come spendere il nostro tempo, scegliamo bene gli insegnanti con cui studiare e gli istruttori con cui muoverci. E se possiamo permettercelo, valutiamo anche la possibilità di pagarli, quei corsi. Perché ricordiamoci sempre che dietro a quei corsi o a quelle lezioni c’è il lavoro di un professionista. Un professionista che magari al momento non può lavorare e guadagnare, e sta cercando il modo di andare avanti.

Ci siamo chiusi in casa per un bene comune. Cerchiamo di vivere anche tutto il resto in nome di un bene comune, perché comune significa che è anche nostro.

Così ne usciremo davvero più forti. Così davvero, alla fine, andrà tutto bene.