Satya

Passiamo al secondo degli Yamas, Satya, o verità. Quindi, essere veri, sinceri, con gli altri, ma anche con noi stessi. Anzi, prima di tutto con noi stessi. Come potremmo in fondo essere sinceri con gli altri senza esserlo con noi per primi?

Ma cosa intendiamo con verità? Generalmente verità è esattamente ciò che vedo, sento, o capisco. E già qui vediamo una prima difficoltà: il nostro cervello interpreta in automatico ciò che vediamo o ascoltiamo, come posso sapere se quello che poi comunico è la verità o qualcosa di distorto dalla mia interpretazione?

Secondo la filosofia yogica, la verità ha molte facce, ma noi non possiamo vederle se non dopo la realizzazione. E anzi, il mondo intero è falso (quel famoso velo di Maya, ne hai sentito parlare?), solo l’Universo (o Dio) è vero e reale.

Questo cosa significa? Che in fondo non importa cosa dico, dato che comunque quello che dirò sarà per forza qualcosa di non vero, dato che si basa sull’esperienza terrena, che è di per sé falsa? No, anzi. Ricordiamo che gli Yamas sono il primo passo nel percorso verso la realizzazione, e saltarne uno potrebbe rendere un po’ più difficile il cammino.

Probabilmente il modo migliore per metterlo in pratica è pensare prima di parlare. Avere controllo su ciò che dico, sulle parole che scelgo. Quante volte diciamo qualcosa quando siamo arrabbiati di cui poi ci pentiamo? Succede perché in quel momento non abbiamo il controllo delle parole che escono dalla nostra bocca, perché un’emozione ha preso il controllo di noi.

Pensare prima di parlare può significare molte cose. Evitare discorsi che porterebbero dolore inutile. Affrontare discorsi difficili e dolorosi perché farlo potrebbe fare del bene a qualcun altro. Scegliere di non parlare quando siamo sopraffatti dalle emozioni e rimandare il discorso a quando saremo più calmi (che non significa non affrontare qualcosa, solo farlo a mente lucida). Dipende. Dalla persona, dal momento, dal discorso, dalle parole.

E tutto questo vale anche per i discorsi interni, quelli che ci facciamo nella nostra testa.* Anche quelli devono essere veri. Dobbiamo ammettere la realtà di chi siamo e di ciò che viviamo, proviamo, prima di tutto a noi stessi, altrimenti è molto probabile che tutto ciò che uscirà da noi sarà in qualche modo falsato.

Che dire, verità sembrava una cosa facile di cui discutere, e invece potremmo andare avanti per ore. Oppure potremmo chiudere il tutto in una riga: se nulla di ciò che vedo è reale, che senso ha parlarne?

*(A proposito di questo, posso farti una domanda? Ho recentemente scoperto che ci sono persone che non pensano tramite un perenne monologo interiore, come me ad esempio, ma più per immagini. Tu di quale “gruppo” fai parte?)

Ahimsa

Come promesso, eccomi qui a tentare di scrivere di tutti gli Yama e Niyama. Senza la pretesa di essere esaustiva, senza provarci neanche forse. Ma per portare qualche riflessione, su alcuni più di altri.

Si comincia con Ahimsa, che è uno di quelli che più mi dà da pensare. Letteralmente significa non violenza, quindi che dire, pare facile no? Forse non tanto quanto sembra.

In molti la interpretano come la necessità, il dovere, di essere vegetariani o vegani. In questo modo non si fa del male agli animali. Fin qui non ci piove. Certo, bisogna poi considerare che forse, in realtà, gli esseri umani non sono fatti per consumare solo prodotti vegetali. Che alcuni, se non molti, soffrono di varie carenze quando cercano di seguire una dieta così restrittiva. Oppure che la possibilità che abbiamo di scegliere cosa mangiare e cosa non mangiare viene da una posizione estremamente privilegiata che non tutti hanno.

Per quanto mi riguarda, la scelta dovrebbe essere del singolo. Ognuno dovrebbe valutare la sua dieta sulla base dei bisogni del corpo, della disponibilità di risorse locali magari, della sua disponibilità economica. Magari non fare scelte drastiche senza aver consultato un esperto (e per esperto intendo qualcuno laureato in medicina, non il primo che capita che ha frequentato un corso di 4 ore se va bene). Soprattutto, non bisognerebbe a mio parere imporre le proprie scelte sugli altri, perché questa sarebbe violenza.

Si perché Ahimsa, la non violenza, comprende quella fisica, ma anche quella perpetuata con le parole e addirittura con i pensieri. Quindi ben venga la scelta consapevole, ben venga esporre il proprio punto di vista senza offendere nessuno, ma chiamare assassino uno che mangia una bistecca forse non è proprio in linea con la non violenza che vogliamo praticare.

C’è anche da considerare che dovremmo praticare Ahimsa non solo verso gli altri, ma verso tutti gli esseri viventi: e questo comprende sì gli animali, ma anche noi stessi. E di sicuro la strada giusta non è seguire una dieta restrittiva che ci lascia senza forze, quando questo è il caso.

Se parliamo di non violenza verso noi stessi, molti prendono in considerazione anche la nostra mania tutta umana di attaccarci al rancore, all’invidia, alle gelosie, facendoci consumare da queste emozioni e dai loro “ma, dovrei, non è giusto”. In questo caso, dovremmo attuare anche uno degli altri Yama, il non attaccamento; distaccarci da quelle emozioni, da ciò che le causa soprattutto, almeno per il tempo di vederle per quello che sono: emozioni che sono una parte di noi, e non il tutto, e forse possiamo scegliere quanto spazio permettere loro di occupare.

In un altro senso un po’ più ampio, Ahimsa potrebbe essere interpretata come altruismo, porsi al servizio degli altri. Aiutare per quanto è in nostro potere e nelle nostre possibilità insomma.

Io credo che se imparassimo tutti ad essere un po’ meno egoisti, e ad ascoltarci davvero (noi stessi e l’uno con l’altro), non sarebbe affatto difficile da mettere in pratica.

La pratica yoga dovrebbe insegnarci a sentirci tutt’uno con l’universo, che comprende tutto: la natura, gli animali, gli altri esseri umani. E sentendoci parte del tutto, verrebbe naturale aiutare il prossimo, non fare del male a nessuno, pensare al proprio impatto ambientale e modificare il nostro stile di vita quanto possibile per rendere il mondo un posto un po’ migliore.

Per qualcuno potrebbe significare smettere di mangiare prodotti animali, smettere di usare plastica, smettere di comprare cose inutili, donare quanto possibile in beneficenza o partecipare a progetti di volontariato. Senza però per questo annientarsi completamente, senza ridursi a non avere più energia, o voglia di fare qualsiasi cosa.

Le possibilità sono tante ma non significa che dobbiamo fare tutto subito, né che dobbiamo fare tutto.

Se scopro che il mio corpo senza prodotti animali non funziona adeguatamente, magari proverò, se ne ho la possibilità, a scegliere prodotti il più possibile etici e sostenibili. Se non ho soldi da donare in beneficenza magari posso donare il mio tempo, e se ho poco anche di quello posso scegliere di essere gentile con chi incontro per strada.

Non siamo tutti uguali e quindi non tutti riusciremo a fare le stesse cose, e in alcuni casi potrebbe sembrare di non fare abbastanza. Ma bisogna ricordarsi che anche un piccolissimo gesto può fare la differenza, se fatto con il cuore (e non per postarlo su instagram).

E che fare violenza su noi stessi perché “non facciamo abbastanza” è il contrario di quello che vogliamo.

Il cammino dello yogi

Qualche settimana fa ho avuto la fortuna di partecipare a tre lezioni di filosofia con un insegnante indiano che vive a Rishikesh (uno dei vantaggi della pandemia mondiale è che anche chi non ha mai lavorato online ora ha organizzato qualcosa).

È stato un ottimo ripasso, e anche l’occasione di conoscere punti di vista leggermente diversi da quelli che avevo sentito finora. Mi aveva fatto venire voglia di approfondire alcuni argomenti anche qui sul blog. Non perché non siano già trattati abbastanza, anzi. Ma perché metterli per iscritto, in un modo comprensibile anche ad altri, è il modo migliore per me di riflettere su alcune questioni.

Volevo cominciare una serie di post su Yama e Niyama, concentrandomi su uno alla volta e riflettendo su come metterli in pratica, se possibile, nella nostra società, così diversa da quella in cui gli Yoga Sutra che li contengono sono stati concepiti.

Il primo Yama è Ahimsa, e mi sono un po’ bloccata. Tutto quello che le mie dita riuscivano a digitare suonava polemico, dato il periodo non facile in cui ci troviamo e i comportamenti che vedo intorno a me. E così non ho scritto per settimane. Ma so che se vado avanti nel silenzio sarà sempre più difficile riprendere, quindi ho deciso di scrivere questo post introduttivo, e poi prometto che a breve mi butterò sull’analisi di ogni Yama e Niyama (dal mio umilissimo punto di vista).

Yama e Nyama

Patanjali, negli Yoga Sutra, divide il cammino dello yoga in 8 rami. Le asana che tanto ci piace praticare sono solo al terzo posto, seguite dal pranayama.

Prima di queste, in realtà, dovremmo mettere in pratica ciò che si trova ai primi due rami: Yama e Niyama.

I 5 Yama sono generalmente definiti come norme di comportamento etiche e morali, e sono:

– Ahimsa: non violenza

– Satya: verità

– Asteya: non rubare

– Bramacharya: astinenza (sessuale)

– Aparigraha: non possessività.

Ahimsa e Satya, ad esempio, furono le “armi” usate da Gandhi nella sua lotta non violenta. Li approfondirò uno per uno, cercando di parlare anche delle sfumature che le definizioni prendono a seconda dell’insegnante che ne parla (almeno per quanto riguarda gli insegnanti che ho avuto finora).

I 5 Nyama, o discipline interiori, sono invece:

– Saucha: purezza

– Santosha: contentezza

– Tapas: disciplina

– Swadhyaya: studio individuale (di sé stessi e delle scritture)

– Ishvara Pranidhana: abbandono, totale fiducia in Dio/nell’Universo

È assolutamente necessario praticare tutte e 10 PRIMA di approcciarsi alla pratica fisica? Dipende. Possiamo dire che se le ignoriamo totalmente, il progresso nel cammino spirituale sarà molto più lento. Sono come le fondamenta di un palazzo: rendono la struttura stabile.

Ormai lo yoga si è diffuso così tanto come pratica fisica che la maggior parte delle persone non ha la più pallida idea di cosa siano Yama e Nyama, o anche gli Yoga Sutra. È importante che gli insegnanti li introducano nelle lezioni, a mio parere, a modo loro, senza tenere necessariamente lunghe lezioni di filosofia, ma in modo che i praticanti sappiano che dietro alle posizioni c’è molto di più.

Normalmente, se si pratica per un po’ di tempo, si diventa quasi inevitabilmente curiosi, si comincia a fare domande, cercare libri o articoli da leggere. È difficile ormai approcciarsi allo Yoga nell’ordine in cui ci è stato tramandato, e a mio parere non è neanche necessario.

Io stessa per i primi anni ho praticato solo ed esclusivamente asana e pranayama (a volte anche meditazione, senza sapere bene come e cosa fare). Qualcuno potrebbe dire che non praticavo yoga, ma solo asana, e magari avrebbe ragione. Ma quelle posizioni mi hanno poi portata a studiare e ad andare più a fondo, a cercare insegnanti che sapessero rispondere alle mie domande, a diventare poi io stessa insegnante (anche se di questi tempi, più che mai, mi sento molto, ma molto, più allieva che insegnante).

Approfondirò (spero, data la mia proverbiale costanza) ogni singolo Yama e Nyama nelle prossime settimane; come dicevo, più che per dare loro una definizione (dato che se ne trovano tantissime ovunque ormai, e sicuramente migliori di quelle che potrei dare io), per riflettere su come applicarli nella vita quotidiana, nella nostra società.

Diritti e doveri

Scorrendo lunga la galleria delle foto del telefono, alla ricerca di non so cosa, ho trovato questa citazione (presa da qualche parte su internet, tempo fa).

The single biggest thing I learned was from an indigenous elder of Cherokee descent, Stan Rushworth, who reminded me of the difference between a Western settler mindset of “I have rights” and an indigenous mindset of “I have obligations”. Instead of thinking that I am born with rights, I choose to think that I am born with obligations to serve past, present, and future generations, and the planet herself.

(La si trova in giro sul web spesso come anonima, l’ho trovata poi come parte di un’intervista a Dahr Jamail in occasione dell’uscita del suo libro “The End of Ice”)

Mi faceva un discorso simile una persona a me molto cara. Di quanto fosse stanco da sempre di chi urlava ai diritti, diritti, diritti (si stava parlando di politica quel giorno).

Forse non è mai stato così evidente quanto abbiamo perso di vista che avere dei diritti comporta innanzitutto avere dei doveri. Forse in situazioni nuove ed estreme ce lo dimentichiamo ancora di più.

Il diritto di agitare il mio pugno finisce dove comincia il naso dell’altro uomo.  (Oliver Wendell Holmes Jr.)

La tua libertà finisce dove inizia quella degli altri.

Tanti modi per dire più o meno la stessa cosa, ma devo dire che il dovere nei confronti delle generazioni passate, presenti e future, e di Madre Terra, forse è l’immagine che mi piace di più. Dà meno spazio all’interpretazione, ci porta a rispettare il passato, contribuire al presente, guardare al futuro.

Tutto il contrario di pensare solo a se stessi e solo per la durata della propria vita (o magari di quella dei figli).

Io sono fortunata perché mi ritrovo circondata da persone che hanno presente questa cosa. Che si tratti del diritto di voto, del diritto alla salute, del diritto al lavoro. E’ mio come degli altri, e in alcuni casi diventa un dovere, per offrire alle generazioni presenti e future qualcosa di buono, per onorare le generazioni passate che certi diritti li hanno ottenuti lottando.

Mi ritengo fortunata perchè ho intorno persone che riflettono prima di parlare o agire perché sanno bene che a volte i confini sono molto labili, sono difficili da capire. Grazie a queste persone continuo ad avere fiducia negli esseri umani, anche se ammetto che le reazioni che ho letto in giro nell’ultimo anno hanno fatto vacillare parecchio questa fiducia.

Ma non posso perderla, devo crederci, lo devo alle generazioni passate, a quelle presenti, a quelle future.

Un anno

Oggi mi è capitato di leggere il post di un’insegnante di yoga stanca. Una ragazza che ha dovuto chiudere il suo studio, ha cercato invano un altro lavoro, ha continuato a insegnare online capendo che la situazione lo richiedeva, e che comunque, dopo un anno, nonostante continui a capire, è stanca e sta perdendo le speranze.

E l’ho capita. Solo lo scorso weekend avrei scritto cose molto simili. Sabato scrivevo a un’amica che avevo voglia di mollare, che non ce la facevo più, perché per vari motivi le cose non stanno funzionando come speravo, perché non si vede una fine e quindi un nuovo inizio.

La mia generazione è abituata a doversi reinventare di continuo e a non avere mai nessuna certezza (immagino anche le successive, ma non ne ho esperienza diretta), ma certo quest’ultimo anno ci ha dato una bella botta.

In casa siamo in due: un’insegnante di yoga e un lavoratore dello spettacolo. Anzi tre, c’è anche una gatta che questa pandemia se la sta godendo parecchio, con gli umani sempre a disposizione.

Gli umani sono un po’ stressati però. Lui lavorava in teatro, ma non più da maggio. E’ anche un fonico, ma anche lì al momento c’è poco da fare.

Io lavoro solo online, e ammetto che a me la cosa aveva sempre attratto, e avrei voluto farlo comunque. Ma mi trovo dall’altra parte dello schermo persone giustamente stanche di praticare sempre a distanza, che perdono la motivazione, anche loro in preda allo sconforto e allo stress che inevitabilmente questa situazione crea.

E quindi a periodi lo sconforto prende anche me, ovviamente. E non lo nascondo, perché come sostengo sempre la falsa positività crea solo danni. 

Come dicevo pochi giorni fa, cado in spirali di sconforto, ma fortunatamente finora sono sempre riuscita ad uscirne.

Entrambi in casa avevamo preso certe decisioni (separatamente, anche prima di conoscerci) guidati da una forte passione per quello che facevamo. Crediamo fortemente l’uno nel lavoro dell’altro, e ci sosteniamo. E abbiamo entrambi amici che ci sostengono, come noi sosteniamo loro, nei momenti più bui. 

Che la distanza fisica mica deve per forza significare distanza affettiva. Che non vedersi non significa che non ci siamo gli uni per gli altri. 

Nei momenti in cui la spirale sembra prendermi più del solito, c’è sempre qualcuno che mi tira una corda a cui aggrapparmi. Che mi ricorda chi voglio essere. Che mi indirizza magari verso un sentiero leggermente diverso, forse anche migliore, che era proprio lì a fianco ma che io non avevo notato. 

E così, afferro quella corda, guardo dentro alla spirale, fino a dove il mio sguardo arriva, e semplicemente mi dico “non oggi”. 

Non “mai più”, perché mentirei a me stessa. Perché sarebbe falsa positività. Ma “non oggi” può bastare per ora.

In fondo un anno così ci ha insegnato di sicuro che del domani non c’è davvero certezza.

* Avevo in mente una serie di post più in tema yogico, e prometto che arriveranno. Ma una delle maggiori fonti di stress per me al momento è proprio la pianificazione auto-imposta, la poca libertà che mi concedo. E quindi quegli argomenti li tratterò quando avrò avuto modo di coccolarli mentalmente per il tempo necessario. Fino ad allora, magari forse la settimana prossima, continuo con post a caso che assomigliano più a pagine di diario. Spero di non annoiarvi.

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Incertezza

L’altro giorno mi è capitata sotto gli occhi la poesia “Lentamente muore” di Martha Medeiros.

E in particolare mi è rimasto in testa quel 

“Lentamente muore […] 

chi non rischia la certezza per l’incertezza

per inseguire un sogno […]”

Pensavo a quando ho deciso di rischiare quella certezza, e a quando poco dopo ci siamo tutti ritrovati davanti a un’incertezza che non ci aspettavamo. Io l’ignoto l’ho sempre magistralmente evitato per quanto mi fosse possibile, e così adesso mi ritrovo spesso intrappolata in spirali di disperazione, voglia di mollare, col mio corpo che sembra così spesso volermi dire la stessa cosa. 

Ma ho l’enorme fortuna di avere intorno un gruppo di supporto fatto di pochissime persone, ma cavolo quanto sono in grado di tirarmi su! Anche quando li vedo credere in me così tanto e io vorrei solo scuoterli e gridare “ma non capisci che non è vero?”; niente, loro riescono a convincermi ogni volta.

E allora forse, quei segnali che mi lancia il mio corpo e che credevo volessero dire che basta, non posso farcela ancora, forse volevano dirmi che è finalmente ora di tirare fuori quello che sono al 100%. Che alla fine si sa, non sono mai stata brava a fare quello che ci si aspetta da me, se non coincide con chi sono io (e direi che due lauree mancate ne sono la prova, giusto?). 

Nelle mie lezioni non cambierà forse nulla, quando insegno sono in genere totalmente e completamente me stessa. Ma quella che traspare qui, e sui social, non sono sempre io. E sono stanca di recitare una parte che non sapevo neanche di avere.

Riconnettersi

Sia in me stessa, durante la mia pratica personale, sia quando insegno, ho notato che c’è qualcosa che ci accomuna (quasi) tutti: quando ci concentriamo su un particolare, perdiamo il contatto con l’insieme. Durante la pratica è molto comune, soprattutto all’inizio, dimenticarsi del respiro, ed è infatti una delle cose che più spesso gli insegnanti di yoga ripetono o ricordano. Il respiro ovviamente va avanti da solo, ma ci dimentichiamo spesso di controllarlo (se richiesto) o anche solo di notarlo, e di legare il movimento ad esso.

E non ci dimentichiamo solo quello. Nelle posizioni in piedi, mentre sentiamo i muscoli delle gambe bruciare, non abbiamo idea di cosa stiano facendo le braccia o le mani, e spesso addirittura dimentichiamo proprio i piedi che ci stanno sostenendo: li lasciamo lì, così come sono, quando attivarli nel modo giusto renderebbe la posizione molto più stabile e meno faticosa. Così come attivare anche il core (ovvio) e le braccia e le mani.

Per questo ho deciso di dedicare tutte le lezioni di febbraio alla riconnessione con quelle parti di noi che dimentichiamo. Non solo per ricordarci di attivarle e usarle davvero sul tappetino, ma anche per sentirle nella vita quotidiana, e per ringraziare così davvero tutto il corpo per quello che fa per noi.

Hai mai pensato, ad esempio, a quanto sono meravigliosi i tuoi piedi e a tutte le cose che ti permettono di fare? Ti portano in giro, ti sostengono, e continuano sempre a fare del loro meglio nonostante a volte non li tratti benissimo, magari li chiudi in scarpe troppo strette o non permetti loro di muoversi quando vorrebbero.

E le mani, oh le tue mani! Possono creare, nutrire, amare, trattenere, lasciare andare, sostenerci in caso di bisogno. Sono così meravigliose, eppure scommetto che fin troppo spesso anche le tue, come le mie e quelle di tantissimi altri, sono costrette a tenere in mano un telefono o digitare su una tastiera, senza ricevere alcun ringraziamento.

È così per tutte le parti del nostro corpo, ce ne ricordiamo quasi solo quando ci fanno male. Proviamo a dare loro un po’ di amore in più, un po’ di attenzione in più, e molto probabilmente ci sentiremo meglio, in generale.

È anche un ottimo esercizio per la mente, provare a sentire davvero certe parti del corpo (e se hai mai fatto Yoga Nidra o una meditazione body scan sai quanto possa essere difficile!). Magari impariamo ad ascoltarle prima che si mettano ad urlare, prima che sia il dolore a costringerci a dare loro attenzione. E ricreeremo quella connessione mente-corpo che in Occidente abbiamo perso.

Riflessioni senza capo né coda

Mi sono imposta di tornare sul blog anche se ho le idee confuse su alcune cose. Una è quella che segue.

Negli ultimi mesi ho visto diverse persone cadere nella trappola delle varie fantasie di complotto che circolano, prima fra tutte Qanon. Sono in alcuni casi persone che conosco in prima persona, in altri invece insegnanti di yoga più o meno famosi a livello internazionale.

Non riuscendo a capire come soprattutto gli insegnanti di yoga potessero condividere certe visioni, ho deciso di informarmi un po’. Wu Ming ha scritto un’inchiesta molto approfondita su QAnon su Internazionale (una nel 2018 e una nel 2020 – e dovrebbe a breve uscire un libro sull’argomento). Elephant Journal ha pubblicato almeno due articoli sul fenomeno, concentrandosi soprattutto sul mondo yoga.*

Avevo cominciato a scrivere un articolo un po’ più approfondito ma mi rendo conto che ci vorrà del tempo, e forse non ha neanche senso scriverlo, ci sono persone che il fenomeno l’hanno studiato più a lungo e meglio di me.

Capisco che il lockdown abbia contribuito molto. Questo vivere continuamente online, essere bombardati da notizie di continuo, e poi da contro notizie, non è facile. Aggiungi anche l’ansia, la depressione, l’incertezza per il futuro, la paura, è prevedibile che le persone cerchino le notizie che le rassicurano, o che giustificano la rabbia che provano. Senza fermarsi più di tanto a chiedersi se siano vere o almeno plausibili. O se abbia senso concentrarsi su certe cose piuttosto che su altre, in questo momento.

Una cosa che accomuna tutte o quasi queste persone è la rapidità con cui sono disposte a credere a qualcosa solo perché detta/scritta da un certo gruppo e non da un altro. E qui capisco perché possa aver fatto così tanto breccia soprattutto tra coloro che già prima si tenevano alla larga dai mass media, non fidandosi, o sapendo che spesso non raccontano tutta la verità. Per non parlare di chi aveva da tempo cominciato a non fidarsi della medicina, degli scienziati e della scienza. Certe teorie hanno fatto leva sui dubbi delle persone, li hanno alimentati, hanno a volte proposto “soluzioni” che automaticamente diventavano più valide di quelle accettate dai più. E tra queste persone c’erano, e ci sono, molte di quelle che operano nel settore benessere, insegnanti e praticanti di yoga compresi.

Praticare yoga in tutte le sue parti in realtà potrebbe aiutarci, perché ci insegna il distacco e la calma. In questo caso, potrebbe insegnarci ad aspettare prima di giungere a conclusioni affrettate, prima di condividere quell’articolo, prima di prenderlo per vero. Se riusciamo a distaccarci per un attimo dalle emozioni che quella notizia ci suscita, forse riusciamo ad analizzarla anche sotto altri punti di vista. O magari decidiamo di informarci un po’ di più.

Come ci piace tanto ricordare, però, lo yoga è una pratica che prosegue anche per tutta la vita (o per più vite). L’insegnante di yoga è anche sempre un praticante, quindi non è immune da errori. È un essere umano con le stesse emozioni di chiunque altro, e anche se conosce qualche pratica che può aiutarlo/a a controllarle o osservarle con distacco, non significa che riesca sempre ad applicarle. Soprattutto se certe fantasie del complotto cambiano in modo da abbracciare anche temi che ci stanno a cuore, relegando quelli che non condividiamo in un angolo buio che non possiamo vedere subito.

Sto continuando a informarmi il più possibile, sopratutto per capire cosa si può fare per combattere il dilagare di certe teorie che personalmente ritengo pericolose. Perché al momento non sono più stupita e neanche arrabbiata (o forse un po’ arrabbiata sì, lo ammetto), ma piuttosto preoccupata. Come me, anche molti altri, e infatti in tanti hanno cominciato a parlarne apertamente. Che sia il primo passo?

* gli articoli di approfondimento sono tanti, ma consiglio caldamente l’analisi di Wu Ming su Internazionale (entrambe, per avere un quadro completo). Se vuoi approfondire, sarò lieta di condividere i link di quelli o degli altri citati. E se hai qualcosa che credi dovrei leggere, fammi sapere!

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Emozioni

Osservarle per capirle

Ieri ho pubblicato una meditazione su YouTube (che puoi vedere qui) che era un invito a non giudicare le emozioni, ma viverle e lasciare che ci dicano quello che ci devono dire.

È un’esperienza diversa per ognuno di noi: diverse le emozioni, o almeno diverso il modo di viverle, diversi i motivi per cui nascono, diverso il messaggio che portano.

Come esempio, voglio parlarti dell’emozione che più di recente ha voluto insegnarmi qualcosa. Anzi, due, una conseguenza dell’altra.

La prima, è quella che il mio cervello ha voluto subito catalogare come “malinconia, tristezza” (il mio invito a non catalogare le emozioni, nella meditazione, non è necessariamente un invito a non dare loro un nome, quanto piuttosto a non etichettarle come “positive” o “negative”). 

Malinconia e tristezza dovute all’avvicinarsi della fine dell’estate, la mia stagione preferita, seguite subito dal senso di colpa, perché ora che faccio (lavorativamente parlando) quello che mi piace, non dovrei essere felice ed entusiasta di ricominciare? O almeno, questo era il primissimo ragionamento che il mio cervello aveva deciso di fare.

Io però volevo andare più a fondo.

Ho lasciato che la tristezza se ne stesse lì dov’era; ho lasciato che si esprimesse tramite le lacrime; ho lasciato che facesse affiorare tutti i motivi per cui era lì.

E i motivi erano tanti. Perché per almeno tre settimane, mi sono sentita libera da vincoli, libera di fare quello che volevo senza orari decisi da altri, e questo mi mancherà. Perché ho potuto passare tanto tempo con le persone che amo (una in particolare), e ora quel tempo diminuirà sensibilmente. Ma anche perché mi sembra di non averne approfittato abbastanza. Io che amo tanto la notte, e amo la sincerità delle persone e la profondità dei discorsi dopo una certa ora, sono stata spesso troppo stanca per restare sveglia ad aspettare l’alba. Io che poi amo tanto anche le giornate piene di luce che sembrano non finire mai, ne ho passate forse troppe chiusa in casa a lavorare. Ho visto il mare molto più che negli scorsi anni, eppure il tempo lì sembra non bastare mai.

Cosa vuole dirmi tutto questo? Che aprire la partita iva è stato il primo, piccolo passo verso quel grande obiettivo che ho davanti, e che forse, se tutto va bene, mi libererà da molti di quei vincoli che mi fanno sentire stretta. Quindi, che devo continuare a lavorare per arrivarci.

Poi, che il tempo con le persone che amo è una cosa che non voglio sacrificare, e che devo farne tesoro sia quando è poco, sia quando sembra quasi troppo.

E che va benissimo lavorare per un obiettivo, ma senza mai dimenticare che la vita è adesso, e che posso, e devo, concedermi una pausa quando ne sento il bisogno, o passare una notte sveglia a guardare le stelle o la luna, e a parlare con una persona interessante.

E il mare? Beh, quello è bello in tutte le stagioni, ed è comunque parte del grande obiettivo che vorrei tanto raggiungere.

Una volta riflettuto su queste cose, il senso di colpa è praticamente scomparso. Perché è vero che amo quello che faccio. Adoro i miei allievi, e amo poter trasmettere gli insegnamenti di una disciplina che ha plasmato, e continua a plasmare, la persona che sono ora. Ma è anche vero che ogni tanto tutti hanno bisogno di una pausa. E per quanto riguarda le parti della mia vita che non riguardano lo yoga o l’insegnamento, e che amo un po’ meno, servono per raggiungere quell’obiettivo. Sono il sacrificio da fare per arrivare a qualcosa di “piú grande”. E restano lì, ma solo finché non mi costringono a rinunciare al tempo per me.

Ed ecco che il senso di colpa è scomparso. La tristezza è rimasta, per ora, ma ha rinnovato la determinazione, ha chiarito qualche dubbio, ha nutrito di nuovo la mia creatività.

Quindi, alla fine, perché dovrei considerarla negativa?

Ad ognuno la sua

Uttanasana e Paschimottanasana

Tra le prime posizioni in cui vediamo venire fuori ego e frustrazione, ci sono molto probabilmente i piegamenti in avanti: Uttanasana (piegamento in avanti in piedi) e Paschimottanasana (piegamento in avanti seduti).

Guardando una persona flessibile fare questa posizione, normalmente tutti si convincono che sia assolutamente necessario tenere la gambe tese, riuscire a toccarsi i piedi e magari appoggiare la fronte sulle ginocchia. Questo in genere porta molti, soprattutto principianti ma non solo, a curvare eccessivamente la schiena pur di arrivare in quella che credono essere la posizione corretta. E quando l’insegnante suggerisce di piegare le ginocchia, ecco che spesso l’ego ci impedisce di farlo (se ci riesce lui/lei, posso farlo anche io!). O magari a volte non è l’ego, ma la convinzione che la posizione serva per allungare le gambe, e che se queste non restano tese non si allungheranno mai.

In realtà, queste posizioni non servono per allungare solo le gambe, ma tutta la catena cinetica posteriore, dalla pianta dei piedi alla fronte. Inoltre, occorre una buona rotazione del bacino per raggiungere quella che molti considerano la posizione “giusta”.

Ma come dico sempre, e non solo io, la posizione giusta non è quella che vedi fare da un’altra persona, ma quella che va bene per te e per il tuo corpo.

Vediamo come trovarla.

Parleremo principalmente di Uttanasana, ma le indicazioni si applicano anche a Paschimottanasana.

Partiamo in piedi, in Tadasana. Con un inspiro portiamo le braccia al cielo, allungando tutta la schiena verso l’alto. Nell’espiro, ruotando il bacino (“perno alle anche” come diceva una mia insegnante) e mantenendo la schiena dritta e le braccia vicine alle orecchie, cominciamo a piegarci in avanti, piegando leggermente le ginocchia. Idealmente, le dita delle mani (o magari i palmi) arriveranno a terra, davanti o ai lati dei piedi, e una volta qui riusciamo a stendere le gambe. Se così non fosse, lasciamo le ginocchia piegate ed eventualmente appoggiamo le mani su un supporto (blocchetti o quello che hai a portata di mano).

Non curvare la schiena pur di arrivare a terra e tenere le gambe tese

La schiena resta sempre in estensione, vale a dire che lo spazio che ho creato allungandomi verso l’alto non deve essere sacrificato e “perso” con l’illusione di andare più a fondo in posizione. Una indicazione che do spesso per aiutare a mantenere l’allungamento è di immaginare il petto che va verso gli alluci, più che la fronte verso le ginocchia.

Piega le ginocchia per aiutare la rotazione del bacino e mantenere la schiena in estensione
e se necessario, usa dei supporti per “avvicinare” il pavimento

Esplora la posizione per alcuni respiri, piega di più o di meno le ginocchia, prova a ruotare il bacino ancora e ancora. Una volta trovata una posizione utile e sostenibile per te, restaci e respira, immaginando di creare spazio tra le vertebre a ogni inspiro, e di ruotare ancora il bacino a ogni espiro. Non importa se non ti muovi neanche di mezzo millimetro, continua ad attivare i muscoli e lasciare andare il corpo come se lo stessi facendo, e vedrai che pian piano, se il tuo corpo è predisposto ad arrivare oltre, ci arriverà.

Per quanto riguarda Paschimottanasana, valgono le cose dette sopra: ci allunghiamo verso l’alto e poi ruotiamo il bacino per portare le mani verso i piedi. Ricordiamoci qui di tenere sempre i piedi a martello (la catena posteriore parte dalla pianta dei piedi!), la schiena in allungamento, e pieghiamo le ginocchia quanto necessario (in questo caso possiamo portare un cuscino sotto le ginocchia in modo da tenerle comunque appoggiate).

Non curvare eccessivamente la schiena solo per arrivare ai piedi
e neanche per portare la fronte alle ginocchia (ricorda, petto verso gli alluci!)

Se non arriviamo ai piedi, possiamo afferrarci le caviglie o gli stinchi, o utilizzare una cinghia (o sciarpa o cintura) per “colmare lo spazio” che separa le mani dai piedi. Come prima, respiriamo nella posizione, attiviamo e lasciamo andare, e diamo al corpo il tempo che gli serve per andare più a fondo in posizione (che siano secondi, minuti, o magari settimane, mesi, anni).

Per mantenere la colonna in estensione, piega le ginocchia
oppure usa una cinghia
e nel caso, piega ANCHE le ginocchia

Per quanto mi riguarda, quando ho cominciato a praticare Yoga, toccarmi i piedi sembrava un’impresa impossibile. Ora invece sono arrivata anche oltre, e so che il mio corpo, se gli do il tempo, riuscirà a fare anche di più. E se invece, per qualche motivo, non lo farà, non importa. Continuo a godermi il viaggio, e la posizione.